Visioni mistiche: l’albero delle barriques

De gustibus non disputandum est, recita il famoso detto ma i distinguo sono inevitabili, in quanto chi esercita un ruolo sia di critico che di carattere didattico e divulgatorio deve saper andare oltre il proprio gusto personale e, soprattutto, evitare di farsi trascinare da derive fantasiose prima di aver approfondito gli aspetti tecnico-scientifici di alcuni argomenti.

Per essere più chiaro è opportuno fare qualche semplice esempio.

Il primo termine di raffronto è costituito dall’ossidazione. Do per scontato che chi legge queste pagine sia perfettamente a conoscenza del fenomeno ma, in sintesi, l’ossidazione è un processo di deterioramento di un prodotto, può evidenziarsi in varie fasi e in modo più o meno accentuato al punto che un inizio di ossidazione in un vino in gran parte integro è una condizione accettabile anzi, nel caso di bottiglie datate, può costituire un motivo di interesse e di maggiore complessità. Il problema, venendo al sodo, è che oggi c’è chi cerca l’ossidazione nei vini giovani e la sbandiera come una qualità positiva, un po’ come se si preferisse la prima fetta, esposta all’aria per giorni, di un salume o di un frutto.

Ma non è soltanto una questione di gusto personale, un prodotto ossidato cancella e omologa tutte le altre caratteristiche che lo distinguono: nel caso di un vino non riconosci il vitigno o il luogo di produzione in quanto l’ossidazione annulla ogni sfumatura. Il paradosso è che spesso chi è indulgente o addirittura ama questo tipo di vini insiste nel parlare di territorio e di carattere, ingenerando confusione su confusione.

È lecito avere questo tipo di gusti? Ovviamente si, ma le motivazioni debbono essere esclusivamente personali, non ce ne sono altre e per favore non raccontiamo storielle giustificative, soprattutto da parte di persone ritenute competenti o, almeno, influenti.

Passo a un altro esempio.

Vi sarete accorti che un termine utilizzato sempre più frequentemente tra gli appassionati e anche, direi addirittura soprattutto, tra gli addetti ai lavori è “salato”, con frasi tipo “senti che bel sale c’è in questo vino..”. La presenza di sale è associata al terreno e quindi un vino salato – che non è sinonimo di sapido – è considerato autentico e territoriale. Non è proprio così.

Da cosa deriva la sensazione di salato un normale consumatore non è tenuto a saperlo ma un professionista o, comunque, chi è seguito da una certa platea, sarebbe opportuno si documentasse. In prima battuta diciamo che è piuttosto semplice per un tecnico aggiungere sale a un vino o, quanto meno, non eliminare quello già presente. Il motivo è ovvio, come accennato c’è una parte di pubblico e addirittura di critica che cerca questa sensazione. Lo volete salato? E salato lo avrete, come più dolce, più tannico, più acido o più boisé. La grande maggioranza di vini salati deriva quindi da pratiche di cantina mentre in natura la salinità di un vino è da ascrivere spesso a una situazione di stress idrico, quindi a un probabile squilibrio della pianta. È comprensibile che i primi fautori del gusto “salino” siano stati trascinati dal contestare un’altra moda imperante e ancora più disdicevole, ovvero del vino-marmellata, dolce e appiccicoso all’eccesso, ma è opportuno ricondurre ogni aspetto nei giusti binari ed evitiamo quindi di raccontare panzane se vogliamo essere credibili.

Altro tema delicato è relativo ai lieviti autoctoni in opposizione ai selezionati. Bene, personalmente sono assolutamente favorevole a un utilizzo sempre più diffuso degli autoctoni che in una certa misura fanno parte delle caratteristiche di uno specifico territorio. Non è però né una catastrofe né una contaminazione degenerativa l’uso dei secondi. Gli aspetti comici però riguardano la degustazione: c’è chi afferma – non si sa in base a quale criterio o sensazione – di riconoscere i lieviti dei vini che assaggia. Roba da maghi o santoni più che da professionisti.

Con lo stesso approccio possiamo immaginarci di aver trovato, nel recente tour di Bordeaux, “l’albero delle barriques” che quando sono pronte e mature cadono dai rami. Nessuno ce lo impedisce.

Ed ecco che si cade nel vero problema di fondo: a chi pratica da anni tecniche invasive e omologanti che appiattiscono l’identità dei vini si risponde con il proliferare di una corrente di pensiero intrisa di ideologie campate in aria, di suggestioni irrazionali, di visioni mistiche che rischiano di mettere in ridicolo proprio chi produce vino rispettando seriamente la natura, i suoi ritmi e anche il buon gusto dei consumatori “sani”.

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