BORDEAUX PRIMEURS. Château Latour

In linea con le presentazioni degli ultimi anni e coerentemente con la scelta di uscire dal mercato dei Primeurs, anche in questa occasione a Château Latour sono stati proposti in assaggio non solo i vini dell’ultima vendemmia ma anche le bottiglie in procinto di uscire sul mercato, vale a dire un delizioso Pauillac 2019, un entusiasmante Les Forts de Latour 2018 e un complesso e austero Grand Vin 2017. Il giudizio e il commento più completo è, come sempre, consultabile in zona abbonati.

L’annata 2023 può essere invece sintetizzata dal detto “tutto bene quel che finisce bene”, nel senso che il finale di stagione ha fugato i dubbi, i timori e le apprensioni provocate da una primavera e da mesi estivi poco rassicuranti. Spesso, anche se non sempre, i dati statistici rivelano delle verità sostanziali e, va da sé, oggettive. Osservando il bilancio climatico rilevato a Château Latour, risalta il fatto che, dopo i mesi di aprile e maggio nettamente più caldi del consueto, a giugno e a settembre 2023 ha piovuto mediamente di più rispetto alla media degli ultimi 25 anni, con temperature leggermente più elevate; al contrario i mesi di luglio e agosto sono stati decisamente secchi ma con temperature simili o addirittura leggermente inferIori della media sopra citata, fatta eccezione per l’ondata di calore estremo arrivata intorno al 24 di agosto. Ne è derivata un’annata imprevedibile, con rischi elevati di malattie fungine a giugno, una crescita sofferta degli acini in estate e un finale di stagione “thrilling”, vissuto con il timore che le piogge previste impedissero di ottenere una maturazione accettabile. Alla resa dei conti si può dire che, come spesso capita, sia stata proprio la parte conclusiva dell’annata a determinarne il successo: le piogge sono state distribuite (83 mm) con continuità nel corso del mese di settembre, ma senza i temuti eventi torrenziali, e hanno permesso di rinfrescare i terreni e “rigonfiare” di polpa gli acini sino ad allora striminziti.

Sempre a livello statistico non è meno interessante la composizione dell’uvaggio dei tre vini prodotti (Grand Vin, Les Forts e Pauillac). Premesso che il Cabernet Franc, che va tanto di moda dalle nostre parti, è completamente assente a Latour e che il Petit Verdot è presente solo con piccole quote, inferiori al 5 per cento nel secondo e terzo vino della proprietà ma senza nessun utilizzo nel Grand Vin, è il Merlot a mantenere una parte importante sia nel Les Forts, dove è presente con un buon 40 per cento, che nel Pauillac, dove arriva al 34%. Ma nel Grand Vin, con meno dell’8% si limita “a fare da spalla” al Cabernet Sauvignon che, come da tradizione, è il miglior interprete del territorio.

L’annata 2023 di Château Latour registra esattamente un grado alcolico in meno (13,2) rispetto alla straordinaria vendemmia 2022. Ovviamente è meno potente e ricco ma esprime in modo anche più trasparente la sua essenza: un vino tutto in finezza. Magnifico e affascinante.

 

Le note di degustazione sono consultabili qui, in area abbonati.

CHȂTEAU MOUTON ROTHSCHILD: L’ETICHETTA DELL’ANNATA 2021

La nuova etichetta (https://vimeo.com/890231576/0c981624a6?share=copy) di Ch. Mouton Rothschild, illustrata da un’opera originale dell’artista giapponese Chiharu Shiota, è finalmente pronta e sarà presente sulle bottiglie dell’annata 2021 che uscirà il prossimo anno.

L’annata 2021 non è stata considerata generalmente grande a Bordeaux ma è sempre meglio diffidare delle generalizzazioni. Personalmente ho trovato ottimi motivi per apprezzarla e, al di là delle impressioni complessive sul millesimo, debbo dire che, basandomi sugli assaggi en primeur dello scorso anno, Mouton 2021 è una bottiglia davvero fantastica per armonia ed eleganza, in assoluto una delle migliori dell’annata.

In vista delle festività natalizie auguro a tutti (me compreso) di avere la fortuna e la possibilità di berla almeno una volta nei prossimi anni.

Château Haut-Bages Libéral, qualcosa si muove a Bordeaux

Quando faccio il punto su ogni nuova annata bordolese non posso fare a meno di avere l’impressione, certamente superficiale, di osservare una situazione pressoché cristallizzata dove, alla resa dei conti, i vini migliori sono sempre i soliti.
In realtà, in una sorta di Panta Rei, tutto sembra fermo e tutto si muove. I movimenti, in alto e in basso, spesso sono appena percettibili: “quest’anno ho trovato un pizzico di tannino in eccesso in Ch. Margaux” oppure “Cos d’Estournel è un tocco più profondo della precedente annata” e così via: punteggiature, una virgola qui, una virgola là, ma in sostanza i valori sono sempre quelli. Ma, soprattutto nei millesimi più recenti, le variazioni e gli spostamenti, prevalentemente in alto, sono più consistenti e, per chi è costantemente assetato di novità, anche stimolanti e incoraggianti.
Ecco allora che, a sostegno di questa suggestione debbo sottolineare l’ascesa sensibile e costante del Grand Vin di Haut-Bages Libéral, un Pauillac cinquième cru classé che confina direttamente con Château Latour, dal quale è diviso solo dalla Route de la Rivière, una piccola strada che scende fino al palus che affianca la Gironda. Un’altra parte dei vigneti sono poco distanti e adiacenti a quelli di Pichon Baron che, a sua volta intendiamoci, non è proprio l’ultimo arrivato. Il terzo appezzamento è situato invece sull’altopiano di Bages a fianco di – scusate se è poco – Château Grand-Puy-Lacoste.
La storia dello Château è molto interessante e, purtroppo, anche tragica in alcuni aspetti, ma per il momento mi limito ad accennare che Libéral è il nome della famiglia che lo ha posseduto sin dal 1700 e che Bages è un toponimo situato nel comune di Pauillac che ritroviamo collegato anche ad altre Tenute (Lynch-Bages, Croizet-Bages e altre ancora). Al momento attuale fa parte, come Château Ferrière (altro vino in forte ascesa) e di Château La Gurgue a Margaux, delle proprietà di Claire Villars che, in sintonia con il consorte Gonzague Lurton (proprietario di Durfort Vivens, altro Château in netto crescendo), segue  con determinazione i dettami della pratica biodinamica.

Come accennato, Haut-Bages Libéral da una parte confina direttamente con Château Latour e non è un dettaglio evidentemente: stesso microclima, stessa distanza dalle rive della Gironda, composizione dei suoli – almeno sul lato confinante – molto simile se non identica, per cui è difficile abbandonare il dubbio che abbia ben altro potenziale da sviluppare. Il concetto, evidentemente non cambia per la parte in contatto con i vigneti di Pichon Baron e Grand-Puy-Lacoste. In effetti le vicende storiche ed economiche delle varie proprietà che si sono succedute nel tempo hanno spesso un peso non secondario sull’affermazione e sulla popolarità dei vini di Bordeaux e anche Haut-Bages, che è pur sempre un cru classé, nel passato ha vissuto qualche periodo problematico che gli ha impedito di avere un maggiore successo e forse solo oggi, nei tempi attuali, sta ricevendo le cure e le attenzioni adeguate.
L’azienda è, appunto, in regime biodinamico da alcuni anni ma debbo sinceramente notare che non ho elementi specifici e tanto meno scientifici per assegnare i meriti della svolta positiva a tale scelta. Tuttavia non posso fare a meno di considerare che spesso cambiamenti di questo tipo generano un atteggiamento assai più convinto e partecipativo da parte del produttore o di chi eventualmente lo rappresenta.

In questo caso si respira un entusiasmo che diventa coinvolgente per chi si avvicina a Haut-Bages e del quale sembra risentirne positivamente anche la vitalità e lo stato di salute del vigneto stesso! Dall’esterno le immagini prevalenti che riguardano Bordeaux inquadrano Château dalle strutture sontuose e luccicanti; al contrario Claire Villars preferisce camminare in mezzo ai filari delle vigne e, se non fosse per il vento fresco che arriva dalla Gironda, ti sembrerebbe davvero di essere a contatto con un vigneron borgognone o langarolo.

In effetti, anche basandomi sulle mie occasionali esplorazioni dove ho sempre trovato un vino più potente che fine, a Haut-Bages non ha mai fatto difetto una naturale energia, attinta evidentemente da un ambiente naturale particolarmente favorevole; non è stato tuttavia altrettanto facile riuscire sino ad ora a incanalarla in forme più raffinate per far assumere al vino una personalità più definita ed elegante.
La piccola verticale (2018, 2019 e 2020), che Claire Villars mi ha gentilmente proposto e concesso, ha invece delineato con una certa chiarezza il percorso intrapreso e il profilo del vino assume per me oggi un’identità assai più precisa. Un vino intenso ma anche agile e carezzevole, “sospeso” sul palato e non aggrappato alla bocca, dinamico e non statico. Certamente non siamo ancora al punto di arrivo, il tracciato intrapreso troverà nel tempo una maggior compiutezza ma l’assaggio è stato piuttosto illuminante e chiarificatore.
Le tre annate provate nell’occasione (quattro se aggiungiamo la 2022) hanno una valenza qualitativa – punto più punto meno – molto simile ma le loro caratteristiche sono decisamente diverse, dopo che nel passato H. B. L. sembrava inseguire modelli stilistici convenzionali dove la concentrazione era il motivo trainante che omologava l’uno con l’altro i vini di un’intera regione. Alla fine emerge la sensazione di un vino che “vive” ogni annata per intero, senza contaminazioni o camuffamenti. Un vino più aperto, disinibito, privo di complessi ma non di complessità, se vogliamo usare un gioco di parole. Un vino più autentico, in sostanza.
Merito della biodinamica? Può darsi, è probabile, ma non ho elementi certi per affermarlo.
Merito dell’attenzione, della sensibilità, dell’entusiasmo delle persone che lo creano? In questo caso penso proprio di si. Gli ingredienti imprescindibili in fondo sono sempre quelli: vitigni e persone giuste nel posto giusto, una “ricetta” che in sintesi si traduce con terroir.

Le note di degustazione sono disponibili quiper gli abbonati.

CHÂTEAU MOUTON ROTHSCHILD, Primeurs 2022 e altre storie

Scendo in cantina e pesco due vecchie, non ancora vecchissime, annate, la 1989 e la 1990, di Mouton Rothschild. Due millesimi di altissima reputazione per i vini bordolesi, di quelli che mettono d’accordo la riva destra con la sinistra, ma considerati dalla critica dell’epoca non proprio leggendari per Mouton. Sentite cosa scriveva a suo tempo a proposito dell’annata 1990 Robert Parker Jr:
The 1990, also impressive from barrel, is a disappointment from the bottle. ….. What a shame!”.
Botta di traduttore ed ecco:
Il 1990, anch’esso impressionante dalla botte, è una delusione dalla bottiglia. Sebbene meno evoluto del 1989, è eccessivamente boisé, con un odore simile a quello del Jack Daniel’s e della botte di whisky. È di medio corpo, un po’ vuoto, e francamente imbarazzante quando lo si assaggia accanto a vini del calibro di Latour e Margaux. L’ho assaggiato dalla bottiglia 3 volte con impressioni identiche. Che peccato!
Parker consigliava poi di consumarlo tra il 1999 e il 2010, non oltre. Ho aperto la 1990 nel maggio 2023 e effettivamente è durata pochissimo, nel senso che ce la siamo (in tre) scolata avidamente. Certamente non ha mostrato una struttura monstre, la trama tannica è sottile e il grado alcolico si ferma a 12,5, e sarà che ero preparato al peggio, sarà che la mia cantina non climatizzata (ma di giusta umidità) fa miracoli, sarà che (porca miseria potevo pensarci prima..) non avevo in comparazione Latour e Margaux, ma vorrei provare più spesso questo genere di delusioni: un vino finissimo, dotato di una freschezza irresistibile con intensi profumi di menta, caffè, rose appassite e spezie che restavano a lungo sospesi nell’aria. Avercene..

Mi è sembrato quindi il caso di fare il punto su Mouton Rothschild e sottolineo il punto, in quanto non voglio certo ripercorrere la storia della Tenuta dalle sue origini ma mi piace soffermarmi su alcune curiosità che certamente chi frequenta Bordeaux sa a memoria ma delle quali non tutti sono a conoscenza.

Partiamo intanto dal nome “Mouton”. Credo che molti, io per primo, pensano che stia per montone o ariete e tutte le immagini dello Château che ritraggono un montone o, quanto meno, la sua testa, sembrano confermarlo. In realtà pare che il nome originario provenga dai termini motton o mothe che significano piccola collina, monticello, in corrispondenza dell’altopiano dove risiedono in gran parte i vigneti (84 ettari) della Tenuta dei Rothschild.

L’altra curiosità, probabilmente ben più conosciuta, è invece legata alla classificazione del vino che nel 1855 non fu inserito, come evidentemente si attendeva, tra i premiers crus ma fu classificato come deuxième. A parte l’inserimento del 1856 di Cantemerle, l’unico cambiamento alla gerarchia ufficiale dei crus del Médoc ha riguardato proprio la promozione al primo livello di Mouton nel 1973, esattamente 50 anni fa. Un passaggio significativo condensato nei motti che apparivano sulle etichette. Prima del 1973 si poteva leggere la frase: premier ne puis, second ne daigne, mouton suis. Con l’uscita dell’annata 1973 il motto è stato così modificato: premier je suis, second je fus, Mouton ne change. Non mi pare sia necessario tradurre.

Sul piano strettamente degustativo debbo dire che ho sempre attribuito a Mouton una personalità originale e diversa da qualsiasi altro Grand Vin del Médoc, ma c’è stato un periodo in cui, soprattutto negli assaggi en primeur, questo carattere risaltava anche per una presenza aromatica del rovere più marcata di altri con note di cacao e torrefazione in forte evidenza e in aggiunta a quel singolare mix esotico dove un fiume di spezie orientali si fondeva al ribes e alle amarene. Confrontato, lo ha fatto Parker e allora provo a farlo anch’io, con il distacco austero di Latour, la millimetrica armonia di Margaux o la finezza di Lafite, c’è poco da fare, Mouton appariva sempre quello che ammiccava maggiormente al cosiddetto gusto internazionale. Era un’impressione che affiorava soprattutto negli assaggi dei Primeurs per svanire quando la ricchezza, il senso di opulenza e la personalità inconfondibile trasmessa dal vino finivano per essere dominanti.

Nelle annate più recenti Mouton ha mantenuto l’originalità del suo carattere e il suo classico tatto vellutato ma anche reso meno appariscente la presenza del rovere, assumendo, in misura lieve ma sensibile, un contegno, un portamento, un’impronta stilistica ancora più autorevole.
Jean Emmanuel Danjoy, capo winemaker e direttore delle proprietà Rothschild, ne è evidentemente autore e responsabile e alla mia consueta domanda sui paradossi dell’annata 2022, condivide l’opinione diffusa che attribuisce i meriti alle caratteristiche del terroir (ghiaia, ghiaia e ancora ghiaia) e all’età dei vigneti – a Mouton sono ancora presenti alcuni ceppi addirittura secolari di Cabernet Sauvignon – dai quali derivano vini dalla sbalorditiva maturità e complessità tannica. In questo caso la sorpresa e il mistero sono accentuati dal fatto di trovarsi di fronte un vino che presenta un tenore alcolico superiore ai 14 gradi combinato con un pH di 3,89! Ti attendi quindi un impatto potente, largo, pieno, con un finale robustamente tannico, caldo e boisé e ti trovi un rosso sì ricco e intenso, ma anche morbido e melodioso che ribalta qualsiasi precedente congettura e mostra un finale profumato e interminabile dalla freschezza quasi dissetante. Monsieur Danjoy sottolinea appunto che proprio la presenza di tannini di assoluta integrità e freschezza assume un ruolo parzialmente sostitutivo dell’acidità, consentendo al vino di avere un effetto di contrasto che allunga e distende il finale. Così è, in effetti; il come e il perché non riesco del tutto a spiegarmelo ma lasciamo che resti intorno quel tocco di mistero che in fondo non guasta.
Quello che è certo è che l’ultimo arrivato nella ristrettissima élite dei premier cru, ultimo non lo è mai stato davvero.

Le note di degustazione dell’annata 2022 sono consultabili
qui, nello spazio riservato agli abbonati.
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