Come ogni anno è uscita la classifica dei 100 Top Wines di Wine Spectator. E, ogni anno che passa, il mio interesse per queste graduatorie è sempre più flebile, anche se si tratta di comunicazioni che fanno il giro del mondo e accendono i riflettori della stampa e dei media generici, e non solo di quelli di settore, come in questo caso. Sappiamo, o dovremmo sapere, che WS stila un elenco che non è basato soltanto sulla qualità del vino esaminato, ma tiene conto di altri aspetti come la quantità prodotta, il prezzo di vendita, la reperibilità nel mercato statunitense e aggiungiamo pure un fattore X non meglio identificato. A differenza di altre pubblicazioni, almeno WS dichiara con una certa chiarezza i meccanismi e i criteri di assegnazione dei “premi”; ciò nonostante la sua lista viene percepita semplicemente come un elenco meritocratico e il primo classificato, definito dall’editore Wine of the Year è sbandierato sistematicamente, ed erroneamente, come “miglior vino del mondo” dell’anno in corso. Potrei capire l’equivoco se fosse un riconoscimento inventato da pochi anni, ma è nato nel 1988! E ancora si continua a non capirlo e non farlo capire.
Certamente nel tempo molte cose sono cambiate e per l’occasione ho rispolverato un numero di WS giusto di trent’anni fa per renderle più visibili. All’epoca solo tre vini al mondo, tra quelli assaggiati da WS, raggiungevano la quota, oggi inflazionata, di 100/100; sopra i 95 punti si piazzavano 29 vini ma di questi soltanto 14 entravano nella Top 100. E il motivo è evidentemente collegato agli altri fattori tenuti in considerazione: prezzo e quantità. Gran parte dei vini selezionati otteneva pertanto voti poco sopra i 90 centesimi e probabilmente una forbice di punteggio così allargata rendeva più leggibile e comprensibile il criterio utilizzato.
Al di là di queste considerazioni, ci sono poi altri elementi interessanti, o almeno curiosi, che emergono dalla lettura delle liste di un tempo. I prezzi ad esempio. Vedere uno Chȃteaux Latour a 80 dollari, quasi la metà del San Lorenzo di Gaja, è sbalorditivo al giorno d’oggi. I vini di Bordeaux – qualità elevata unita a quantità ragguardevoli e a prezzi che all’epoca erano ancora contenuti – dominano la scena e, oltre al primo posto, occupano la metà delle prime 50 posizioni. I vini italiani sono 14 con ben 8 Barolo, 2 Barbaresco e una Barbera d’Asti a sancire il dominio assoluto dei vini piemontesi; due “Vini da Tavola” toscani (Ornellaia e Sangioveto di Coltibuono) completano il quadro unitamente all’unico Chianti Classico (Podere Il Palazzino) presente in chiusura di lista (98° posto). Come si vede, altre denominazioni che oggi vanno per la maggiore sono del tutto assenti dal palcoscenico di WS.
Tornando ai giorni nostri è fuori dubbio che la qualità sia universalmente salita ma è altrettanto certo che si sia anche impennato il metro di giudizio, per cui le liste appaiono più compresse ed emerge abbastanza chiaramente come il criterio adottato renda poco interessanti i risultati da un punto di vista strettamente critico proprio perché, limitando l’incidenza del fattore qualitativo, i criteri commerciali prendono sempre più il sopravvento. È una lista molto utile per chi – sia aziende vinicole che operatori di mercato – smercia grandi quantitativi. Le piccole produzioni artigianali sono virtualmente escluse dalla competizione, a meno di ottenere valutazioni altissime associate a prezzi bassi. Non costituisce quindi un punto critico di utile confronto ma semplicemente uno strumento per vendere meglio e con minori sforzi “il prodotto”.
Detto questo, e dato per scontato il fatto che gli appassionati e i consumatori avveduti oltre a una superficiale curiosità non possano trovare concreti motivi per approfondire il senso di queste classifiche, trovo inutile e stucchevole – a parte l’occhiata alle curiosità “storiche” – doverne discutere più di tanto. Insomma, se non avete vino da vendere, fregatevene.
Quest’anno, invece, l’annuncio che il primo posto – Wine of the Year – sia stato assegnato a un vino italiano, che sembra non sia piaciuto – almeno così tanto – a nessuno dei “critici” nostrani, ha sollevato dubbi e perplessità sulle motivazioni e l’attendibilità delle scelte della celebre rivista statunitense.
In conclusione, mentre i media generalisti (e non solo) scrivono – sbagliando – che tale vino è il migliore del mondo, quelli di settore si impantanano in sterili critiche sulle scelte altrui senza rendersi conto di quanto siano discutibili e migliorabili le proprie.