La selezione che propongo in questo caso – limitata a un vino per ogni produttore – tratta in buona parte di etichette ben conosciute, ma è bene ricordare che riuscire a confermarsi ad alto livello non è mai facile. Il resto dei vini recensiti è rintracciabile nell’ultima serie di Schede Aziendali pubblicate in “Ratings”. …
Agosto 2017 – Prime note sulla vendemmia 2017
Il 2017 è stato sinora un anno dall’andamento molto particolare, di difficile interpretazione e con pochi precedenti simili nel passato più recente. Il comunicato stampa pervenutomi dall’Assoenologi fa il punto della situazione in modo piuttosto attendibile anche se, inevitabilmente, generico.
La qualità dei vini, poi, la verificheremo nel prossimo futuro senza pregiudizi, come d’abitudine.
VENDEMMIA 2017: CRONACHE E CONSEGUENZE DI UNA STAGIONE ANOMALA
A memoria d’uomo non si ricorda una stagione come quella in corso, dove gli eventi climatici si sono accaniti con un’inusuale ed eccezionale portata.
Ad aprile un’ondata di gelo ha attraversato la Francia, la Spagna e tutto il nostro Paese, “bruciando” molti germogli ormai già ben sviluppati, e quindi, purtroppo, non più in grado di fruttificare.
Un lungo periodo di siccità, fatte salve alcune regioni del Nord, che ancora persiste, ha messo a dura prova i vigneti del Centro-Sud Italia che hanno dovuto subire anche una straordinaria ondata di caldo, che ha coinvolto anche il Nord, iniziata sin da maggio, raggiungendo il suo apice nei mesi di luglio ed agosto, tanto che la colonnina del termometro ha fatto spesso registrare valori al di sopra dei 40°C.
I vigneti del Nord hanno invece potuto beneficiare, durante i mesi di luglio ed agosto, di provvidenziali piogge anche se spesso sono state accompagnate da forti grandinate che, in alcuni casi, hanno compromesso la produzione in diversi areali. Fortunatamente si riscontrano anche delle zone che non hanno avuto problemi, grazie a qualche pioggia estiva e soprattutto all’oculata e scientifica gestione dei vigneti, o all’eventuale disponibilità di acqua da irrigazione e alla naturale resistenza a questo clima estremo di alcune cultivar specialmente indigene.
Soprattutto, ciò che consentirà di ottenere in alcuni siti produttivi quantità e qualità buone se non ottime è la nostra trasversalità territoriale e la nostra grande biodiversità unica al mondo.
Le prime previsioni Assoenologi indicano una produzione di vino e mosto inferiore di ben 13 milioni di ettolitri rispetto allo scorso anno pari ad una flessione di circa il 25%. Tutte le regioni italiane fanno registrare consistenti decrementi produttivi con punte anche del 35-40% in Sicilia ed Umbria. Unica eccezione la Campania che, dopo la difficile vendemmia della scorsa campagna, fa registrare un aumento del 5%.
Con 41,1 milioni di ettolitri il 2017 si colloca tra le prime 6 vendemmie più scarse dal 1947 ad oggi (1947 – 36.4 milioni di Hl, 1948 – 40,4 milioni di Hl, 1949 e 1950 – 41 milioni di Hl, 2012 41,1 milioni di Hl).
Le nostre stime quantitative sono riferite alla situazione riscontrata dai colleghi enologi delle 17 Sedi periferiche dell’Assoenologi tra la seconda e la terza settimana di agosto, vale a dire quando la quasi totalità dell’uva era ancora sulle piante.
Purtroppo, visto il perdurare della siccità e delle alte temperature al Centro-Sud, non è da escludere che ci siano altre consistenti perdite nella produzione di uva. Entro la fine del mese di agosto Assoenologi comunicherà una stima dettagliata circa la produzione quali-quantitativa della campagna in corso riferita alle singole regioni italiane.
LE PREVISIONI ASSOENOLOGI SULLA PRODUZIONE VITIVINICOLA 2017 REGIONE PER REGIONE
CONFRONTO CON LA MEDIA DELLE ULTIME 5 ANNATE E DEL 2016
Nell’ordine, a fianco di ogni regione: 1- media Regione 2012/2016 Dati Istat 2- Ettolitri produzione 2016 Dati Istat 3- ±% prevista rispetto media ultimi 5 anni 4- ±% prevista rispetto 2016 5- Media ettolitri previsti 2017 |
Piemonte 2.473.000 2.549.000 -13% -15% 2.160.000 |
Lombardia 1.366.000 1.473.000 -19% -25% 1.100.000 |
Trentino A.A. 1.209.000 1.213.000 -10% -10% 1.090.000 |
Veneto 9.009.000 10.145.000 -4% -15% 8.610.000 |
Friuli V.G. 1.490.000 1.856.000 +5% -15% 1.570.000 |
Emilia Romagna 7.173.000 7.857.000 -13% -20% 6.270.000 |
Toscana 2.677.000 3.025.000 -21% -30% 2.110.000 |
Marche 958.000 956.000 -26% -25% 710.000 |
Lazio Umbria 2.199.000 2.284.000 -38% -40% 1.360.000 |
Abruzzo 2.875.000 3.948.000 -4% -30% 2.750.000 |
Campania 1.454.000 1.286.000 -7% +5% 1.350.000 |
Puglia 6.849.000 9.636.000 -2% -30% 6.730.000 |
Sicilia 5.856.000 6.042.000 -33% -35% 3.910.000 |
Sardegna 697.000 804.000 -8% -20% 640.000 |
Altre* 955.000 1.064.000 -23% -30% 740.000 |
Totale 47.240.000 54.138.000 -13% -24% 41.100.000 |
Fonte Associazione Enologi Enotecnici Italiani
* Valle d’Aosta, Liguria, Molise, Basilicata, Calabria
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Bolgheri Superiore 2015, qualche anticipazione – Giugno 2018
Dopo i Rossi 2016 si sale di categoria, e di prezzo, con i Bolgheri Superiore dell’attesa annata 2015. Un’attesa giustificata dalle caratteristiche del millesimo la cui scarsa piovosità nella primavera e nell’inizio estivo ha permesso di ridurre al minimo gli interventi fitosanitari nel vigneto; l’estate, calorosa ma non soffocante, ha avuto un andamento regolare, senza flessioni o impennate improvvise nelle temperature, senza rovesci d’acqua o grandinate di fine stagione. In poche parole, è stata un’annata finalmente rilassante per i vignaioli, a parziale indennizzo delle eccessive tribolazioni della 2014. Difficile, in tali condizioni, fare dei vini meno che buoni e, in effetti, il numero di vini buoni e ottimi è piuttosto ampio, anche se non è così diffusa la presenza di veri fuoriclasse.
I vini assaggiati hanno complessivamente evidenziato equilibrio, morbidezza e rotondità delle forme, ricchezza e densità di frutto con prevalenza di tannini di buona maturità. Per contro ho potuto riscontrare qualche limite negli eccessi alcolici, nell’apporto non sempre proporzionato del rovere e parziali carenze di freschezza e dinamica gustativa.
Le recensioni complete saranno disponibili prossimamente nel fascicolo dedicato ai bolgheresi, ma la rassegna dei migliori vini DOC dell’anno non può prescindere dalla valutazione delle due etichette più “antiche” del territorio, vale a dire Sassicaia e Grattamacco, che si sono confermate, palesando una forma scintillante, al vertice della tipologia. Dalle firme storiche passo direttamente agli esordienti della tipologia con i riscontri più interessanti rilevati per il Campo alle Comete e il Marianova di Michele Satta. Il folto stuolo dei soliti outsider ha invece messo in evidenza numerosi vini, dei quali mi limito a segnalarne solo i tre che mi sono apparsi nella loro versione migliore (o quasi) di sempre, vale a dire il Guado de’ Gemoli di Chiappini, il Sondraia di Poggio al Tesoro e l’Arnione di Campo alla Sughera.
Ma queste sono solo le prime anticipazioni che riguarderanno, nel prossimo intervento, il gruppo dei vini a indicazione geografica.
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I cru di Enogea: la Mappa del Nizza – Marzo 2018
Interrompo la lunga sequenza degli assaggi montalcinesi, per segnalare la presentazione, avvenuta a Nizza Monferrato il 24 febbraio scorso, della nuovissima “enomappa” di Alessandro Masnaghetti, dedicata stavolta ai vigneti del Nizza.
Da semplice sottozona della Barbera Superiore d’Asti, la docg Nizza è passata nel 2014 al rango di denominazione autonoma, basata esclusivamente sul vitigno barbera e distribuita su ben 18 comuni. Con l’ascesa nelle gerarchie ufficiali sono conseguentemente, e anche giustamente, salite le ambizioni e le necessità di comunicare più fortemente la propria presenza ed affermare la propria identità. È nata così l’Associazione Produttori del Nizza che raccoglie le 51 aziende attualmente presenti in zona. Il territorio è vasto e, anche se gli ettari vitati sono al momento solo poco più di 200, l’esigenza di evidenziare le naturali differenze di esposizione, giacitura e caratteristiche pedologiche ha trovato un efficace, originale e aggiungerei intelligente approdo nella pubblicazione di un’inedita mappa dei vigneti del Nizza. Una scelta, aggiungo ancora, che dovrebbe essere presa ad esempio ed emulata anche da altre Associazioni o Consorzi di produttori.
L’incarico non poteva che essere assegnato a un professionista serio, scrupoloso, oltre che competente, come Alessandro Masnaghetti che, con il fondamentale apporto dell’Associazione, ha messo in atto una ricognizione minuziosa e capillare del territorio che ha permesso non solo di delimitare i confini dei vari cru, ma persino di assegnare loro, sulla base delle informazioni anche storiche raccolte, un nome che, si spera, renderà sempre più conosciute le colline e riconoscibili i vini del Nizza.
- www.ilnizza.net
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Maggio 2017 – Cronache del Rodano – parte seconda
a cura di Claudio Corrieri
Domaine du Vieux Donjon
Circa 50.000 bottiglie prodotte per questa azienda famosa e situata appena fuori il paese di Châteauneuf-du-Pape.
Châteauneuf-du-Pape Blanc 2016
buona definizione di frutto tra fiori bianchi e agrumi, è un finto-semplice, penetrante e anche discretamente lungo – 85/100
Châteauneuf-du-Pape Rouge 2014
annata più fresca, un po scarica di materia ma non di maturità di frutto, con tannini freschi, distesi, rilassati e finale scalpitante – 90/100
Châteauneuf-du-Pape Rouge 2015
annata più ricca, molto colore e molta maturità, note di frutta rossa dolce ma non surmatura, è piacevole, invitante, dotato di freschezza e dinamica, con finale molto lungo e profumato di rabarbaro e spezie – 93/100
Domaine de Beaucastel
marchio prestigioso, con un parco vigneti importanti e un palmares colmo di infiniti riconoscimenti, vanta un mercato ben consolidato in America.
La famosa Cuvée Hommage a Perrin spunta prezzi altissimi ormai e, purtroppo, non è presente in questa carrellata.
Châteauneuf-du-Pape Blanc 2015
annata molto matura (e si sente), con un frutto tropicale, ananas e mango, in evidenza; l’ingresso sul palato è impattante, dolce, piacevole ma poco contrastato – 86/100
Côtes du Rhone 2014
corretto ma debole in bocca, manca materia, semplice – 80/100
Châteauneuf-du-Pape Rouge 14
note di pepe e spezie, il tatto è leggero e poco definito; l’attacco di bocca risulta scarno e troppo semplice, anche se gradevole, rispetto il consueto standard del Domaine – 83/100
Châteauneuf-du-Pape Rouge 2009
surmaturazione e note di gomma bruciata, molto legno, impattante e alcolico, anche in bocca non trova né dinamismo né freschezza, con un finale di liquirizia e tannini verdi in risalto – 84/100
Châteauneuf-du-Pape Rouge 2008
vino di maggiore freschezza e definizione, il frutto è maturo, ma non cadente, emerge un pregevole tratto di fiori secchi e grafite, con tannini di buona eleganza; decisamente il più convincente tra i vini di Beaucastel – 90/100
Domaine Feraud
solo 5,5 ettari situati in buona parte su terreni sabbiosi.
Châteauneuf-du-Pape Blanc 2016
composto per quattro quinti da clairette, non ha una presa particolarmente reattiva sul palato, ma una silhouette delicata dal profilo verticale con finale agrumato e una fresca sapidità – 87/100
Châteauneuf-du-Pape Rouge 2014
schietto e arioso, dal colore tenue, con note di bastoncino di liquirizia e carne affumicata in evidenza; il finale è piacevole e coerente – 87/100
Châteauneuf-du-Pape Rouge Raisain Bleu 2014
95% di grenache; di media concentrazione, è arioso, ben articolato, con un “respiro” borgognone e buona matrice sapida – 90/100
Châteauneuf-du-Pape Rouge 2015
non finissimo al naso, che ha un carattere terroso e speziato; è robusto, con tannini rustici e leggermente vegetali, ma incisivi – 87/100
Claudio Corrieri
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Maggio 2017 – Cronache del Rodano – parte terza
a cura di Claudio Corrieri
Clos du Caillou
rinomato Domaine dotato di molti cru importanti.
Chậteauneuf-du-Pape Blanc 2016
equilibri rispettati, aromi netti e freschi, mentolati e agrumati; dolce e balsamico sul palato con forti sensazioni minerali e finale che spinge adeguatamente – 89/100.
Le Nature Rouge 2016
ottenuto da un’insolita combinazione fra counoise e syrah, lavorata a grappolo intero, ha un carattere molto speziato ma nel finale si perde un po’ – 82/100.
Côtes du Rhone Rouge Quarz 2015
85% di Grenache e 15% di Syrah compongono l’uvaggio; mostra un bel frutto nitido, con profumi di spezie e frutti rossi, su un palato leggero e poco contrastato, di facile beva e molto “gastronomico” – 86/100.
Chậteauneuf-du-Pape Les Safres Rouge 2015
ricavato da vecchie vigne (1958) di grenache e un pizzico di mourvedre e cinsault, è molto denso e ricco, oltre che dotato di una presa potente, acida e tannica; non trova però espansione e rilancio nel finale e si ferma rapidamente – 86/100.
Chậteauneuf-du-Pape Quarz Rouge 2015
(85% grenache e 15% syrah), è materico, ricco, di forte struttura tannica e alcolica, è rinfrescato da una viva corrente balsamica, con finale preciso e consistente – 90/100.
Chậteauneuf-du-Pape Rouge Reserve 2015
55% grenache (impiantate nel 1950) e 45% mourvedre (1965) – profuma di lampone e ciliegia, è intenso e calibrato, ha nelle proporzioni e nella dolcezza misurata la sua quadratura, anche se il finale, dai toni un po’ verdi, è meno coinvolgente – 89/100.
Clos du Mont Olivet
famoso Domaine dalle origini antichissime che si fanno risalire addirittura al 1547, conta su quasi 40 ettari tra Chậteauneuf e Côtes du Rhone, con una predominanza di grenache e uno stile classico e tradizionale.
Chậteauneuf-du-Pape Blanc 2015
note di pera bianca e mentuccia; la dolcezza del frutto è contrastata dalla freschezza balsamica, ha respiro e grazia ma anche toni appiccicosi insistenti che appesantiscono il finale – 85/100.
Chậteauneuf-du-Pape Rouge 2015
vino arioso, dal colore poco estrattivo in rapporto all’annata; il tatto è garbato e insieme polposo, di indole elegante, tenero a tratti ma dotato di carattere e scioltezza tannica. Il finale è lungo, luminoso, teso, saporito, semplicemente buonissimo – 93/100.
Chậteauneuf-du-Pape Rouge 2014
ben fatto, alterna note mediterranee di fiori di ginestra e rosmarino, ha un colore tenue e sapore non privo di dettagli, in lieve debito di concentrazione, ma godibilissimo – 89/100.
Chậteauneuf-du-Pape Rouge 2011
alcolico e potente all’impatto, possiede sentori di tartufo e liquirizia, con un tatto elegante e vellutato dove la matura dolcezza dei tannini porta un contributo fondamentale all’equilibrio complessivo – 94/100.
Chậteauneuf-du-Pape Rouge 2007
bella purezza espressiva al naso, l’annata è calda, e si sente per l’esuberanza alcolica, ma non per questo manca di dinamismo e di freschezza, fornita da un tannino misurato, dai risvolti balsamici – 90/100.
Chậteauneuf-du-Pape Rouge Cuvée du Papet 2015
come ogni cuvée d’eccellenza che si rispetti le vigne sono vecchissime, dai 90 ai 100 anni con un 75% di grenache 15 di syrah e 10 di mourvèdre vinificate insieme; il colore è granato, vivo, luminoso, profuma di more, china e spezie e sfodera sul palato una concentrazione di frutto e uno spessore tannico notevolissimi, capaci di espandersi nel lungo finale, fra sale e tannini finissimi.
Se questo è il 2015, immaginiamoci cosa potrà essere il 2016! (annata che si preannuncia addirittura superiore) – 96/100.
Domaine la Barroche
Si parla della rivelazione degli ultimi 10 anni nell’area dello Chậteauneuf-du-Pape. Julien Barrot, il titolare, ormai non lo ferma più nessuno. Con il rinnovamento della cantina ha tutti i mezzi per continuare il suo percorso: dai tini in cemento di Nico Velo, ai passaggi di vinificazione che avvengono per caduta, sfrutta opportunamente i grandi spazi organizzati per gestire fermentazioni e affinamenti in botti grandi o medie, come vuole la Grenache, il vitigno di riferimento per Julien.
Chậteauneuf-du-Pape Signature 2015
molto carico, colore scuro decisamente estrattivo, un vino senza compromessi, dove si alternano in chiaroscuro estrazione e levigatezza, austerità e morbidezza, sensazioni minerali e terrose con il frutto dolce e maturo; un vino potente e dritto privo di titubanze – 90/100.
Chậteauneuf-du-Pape Signature 2014
il colore è più scarico (le annate imprimono ai vini il loro marchio), sentori di pepe, spezie, sensazioni verdi fresche e balsamiche al naso; palato più schietto e dinamico che maturo e polposo, di grana fine ma in debito di maturità – 87/100.
Chậteauneuf du Pape Pure 2015
campione da botte, anzi dall’unica botte che contiene il Pure; materia impressionante per levigatezza e volume, la dinamica gustativa è trascinante e chiude su un finale di liquirizia, pepe, spezie, more e tanto sale a esaltare le sensazioni – 95/100.
Domaine de la Charbonniere
Chậteauneuf-du-Pape 2015
ordinato, preciso, piacevole, ben fatto ma niente più – 84/100.
Chậteauneuf-du-Pape Mourre de Pedrix 2015
naso maturo, corpo di buona densità e struttura; una certa vena rustica, terrosa, accompagna il sorso e lo rende saporito e genuino – 87/100.
Chậteauneuf-du-Pape Les Hautes Brusquieres Cuvée Speciale
già il colore – luminoso,denso, brillante – prelude a un bel conseguimento; l’attacco di bocca è cremoso, con tannini morbidi e setosi che preparano un finale lungo e saporito. Un vino molto ordinato che ha il solo limite di essere ancora imbrigliato dalla sua giovinezza, da attendere con fiducia – 92/100.
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Bolgheri, le nuove annate in uscita – Giugno 2018
Con gli assaggi effettuati il 6 e 7 giugno presso la sala di degustazione del Consorzio di Bolgheri, con il prezioso supporto tecnico del Consorzio medesimo e il solito, superlativo servizio curato da Fabio Cartei, abbiamo completato (io e Claudio Corrieri) l’annuale rassegna delle nuove annate dei vini bolgheresi in uscita quest’anno.
Sono state presentate le annate 2017 per i Bolgheri Bianco, 2016 per i DOC Rossi e 2015 per la tipologia dei Bolgheri Superiore. Tanti i motivi di interesse e di verifica, con la conferma di un millesimo 2015 di piena e completa maturità, diffusamente ben riuscito anche se non esplosivo come si poteva immaginare e di uno smagliante 2016 che già nelle tipologie più semplici ha mostrato doti che lo pongono ben al di sopra dall’essere definito solo come promettente.
I risultati completi, divisi in ordine di azienda, saranno disponibili prossimamente, raccolti in un fascicolo interamente dedicato a Bolgheri, ma nei prossimi giorni pubblicherò le prime, credo interessanti e anche sorprendenti, anticipazioni.
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ANTEPRIME TOSCANE 2019, Chianti Classico 2017
Come accennato nel precedente articolo, la 2017 non è stata un’annata delle più rilassanti ma, come spesso succede, ormai la maggioranza dei nostri produttori possiede gli antidoti (leggi sensibilità ed esperienza) per fronteggiare anche gli eventi climatici più infausti. Vi propongo quindi di seguito le note di assaggio dei Chianti Classico che ho apprezzato maggiormente (escludendo le campionature non definitive) e ai quali potrebbero aggiungersi altri vini promettenti come Fèlsina, Nunzi Conti, Montesecondo, Poggio Scalette, Riecine, Rocca di Castagnoli, Rocca di Montegrossi, Volpaia. La griglia completa delle recensioni sarà comunque disponibile a breve nella parte riservata agli abbonati.
CASTAGNOLI – Castagnoli
Il frutto – integro, maturo e tonico – è al centro del 2017 di Castagnoli; l’acidità è presente ma non aggressiva, i tannini sono ben fusi, l’alcol assorbito dal corpo del vino. La chiusura è semplice ma piacevolmente fresca in rapporto alle caratteristiche dell’annata.
CASTELLO DI AMA – Ama
Il frutto è denso e succoso, l’acidità viva e l’equilibrio complessivo garantito. Il finale non è particolarmente lungo ma è pulito, fresco, coerente.
I FABBRI – Lamole
Trasparente nel colore, è delicatamente fruttato e floreale nei profumi, arioso e agile nello sviluppo, persistente e fragrante nel finale.
PAGLIARESE – Pagliarese
Espansivo e ben stilizzato, supera i lievi accenni di immaturità del frutto con un cambio di passo convincente per tensione e continuità.
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Orbetello nel Bicchiere
Non sono solito fare il resoconto di fiere, festival, sagre ed eventi similari, ma c’è sempre un’eccezione e questi brevi appunti riguardano la mia partecipazione a un concorso enologico – “Orbetello nel Bicchiere” – che si svolge ogni anno e anche quest’anno quindi (dal 31 ottobre al 4 novembre), appunto a Orbetello nel corso della manifestazione enogastronomica Gustatus.
Non è la prima volta, intendiamoci, che presenzio a questo tipo di iniziative, ma negli anni ho sempre più diradato il mio intervento in quanto generalmente la struttura dei concorsi prevede una serie di formalità che li rendono poco incisivi e stimolanti, con risultati resi approssimativi anche per l’estrazione (e la professionalità) molto diversa di ogni giurato.
Emblematica, nonostante l’alto livello di competenza dei singoli attori, fu, a tal proposito, l’esperienza con una degustazione del Grand Jury Européen, del quale facevo parte un paio di secoli fa. In omaggio al paese ospitante – mi sembra di ricordare che per l’occasione eravamo a Villa d’Este – fu organizzata, tanto per non annoiarsi troppo ad assaggiare solo Grands Crus di Bordeaux e Borgogna, una degustazione di vini bianchi italiani. Il criterio di scelta fu basato, chissà perché, su basi geografiche: un vino per ogni regione! Sappiamo bene come certe regioni italiane siano ricchissime di proposte di vini bianchi e come certe altre (Basilicata, Molise..) siano un po’ più a corto. Ma un criterio doveva essere adottato e così fu. Degustazione rigorosamente alla cieca, come sempre al Grand Jury, una trentina gli assaggiatori di alta reputazione, il meglio della critica enoica continentale e non solo. Il problema era che il termine di riferimento non era costituito dai Riesling della Mosella o dai Mersault, ma da strani, particolari, insoliti (per quei palati) vini bianchi italici. Per farla breve, si piazzarono ai primi posti un Sauvignon altoatesino, uno Chardonnay siciliano e un Traminer trentino. Le varietà, evidentemente, più familiari e rassicuranti. Personalmente avevo indicato ai primi due posti (non ricordo l’ordine) i rappresentanti dell’Abruzzo e delle Marche: Trebbiano di Valentini e Verdicchio di Bucci. Entrambi, al conteggio finale, si collocarono a metà graduatoria. Dallo scrutinio emerse inoltre che nessuno aveva scelto uno dei tre vini in cima alla classifica come il suo preferito ma un po’ tutti li avevano piazzati in buona posizione e ciò era stato sufficiente a vederli finire in vetta.
Una degustazione che era servita a far uscire i migliori vini? No, direi proprio di no, ne sono pienamente convinto, ma spesso così sono i concorsi e le degustazioni di gruppo dove non emergono i vini ricchi di talento e carattere ma quelli che sono capiti da tutti e che non dispiacciono a nessuno. Il che è già, indubbiamente, un pregio ma è anche il trionfo del convenzionale e dell’anonimo. Anonimi i vini, anonimi i degustatori, convenzionale il contesto generale e inesistente qualsiasi forma di coinvolgimento.
Non è stato il caso di “Orbetello nel Bicchiere” dove di anonimo c’erano soltanto le etichette dei vini da assaggiare e giudicare. La formula è, come dire, un po’ “casereccia”, non certo ambiziosa e altamente professionale come le degustazioni del Grand Jury, (il paragone è oggettivamente improponibile, c’è solo qualche anno-luce di differenza) ma, a mio modo di vedere, efficace e funzionale allo scopo, previsto dall’iniziativa, di valorizzare i prodotti del territorio. Intanto, il solo fatto che la giuria non fosse composta da un numero elevato di membri ha permesso di favorire l’individuazione di un taglio critico delle scelte da effettuare. Il resto, a partire dall’affiatamento con i miei compagni di giuria, Fabio Pracchia e Franco Pallini, è stato improntato all’originalità e, perché no, anche al gusto della scoperta.
Le scelte finali sono pertanto derivate non solo dall’arido conteggio delle preferenze ma anche da un confronto dialettico tra i giurati, con l’idea condivisa di privilegiare, a parità di valori qualitativi, i vini portatori di un’identità territoriale più espressiva. Come credo che, alla resa dei conti, sia effettivamente successo.
Per la cronaca, l’assaggio, effettuato alla cieca, ha visto prevalere, nelle rispettive categorie il Maremma Vermentino DOC Plinio 2017 dell’azienda Bruni, il Toscana Bianco IGT Ansonica 2017 di Celestina Fè, il Morellino di Scansano DOCG Riserva Sicomoro 2015 dei Vignaioli del Morellino e il Maremma Ciliegiolo DOC Principio 2017 di Antonio Camillo. Si è aggiudicato, infine, il Premio Speciale, intitolato a Giovanni Prisco, la Fattoria Le Spighe di Giancarlo Francia con il suo Maremma Toscana Bianco DOC EraOra 2017.
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Giugno 2017 – Cronache del Rodano – parte quinta
a cura di Claudio Corrieri
La Graveirette
Azienda (biodinamica, certificata Demeter dal 2015) che non conoscevo. L’indicazione mi è stata fornita dall’amico Michel Blanc, direttore del Sindacato dei produttori di Châteauneuf-du-Pape.
Lou Revi 2016
da uve viognier; dimostra subito una buona riuscita con profumi di albicocca, fiori bianchi, fiori di ginestra, con bocca grassa ma non stucchevole, di lodevole progressione e dinamica. Un ottimo vino – 90/100.
Châteauneuf-du-Pape Blanc 2014
balsamico e arioso, possiede note di mentuccia e salvia con una bocca carnosa e un finale fresco – 88/100.
Châteauneuf-du-Pape Rouge 2013
introverso sulle prime, si apre rivelandosi carnoso e tannico, per finire un po’ frenato dall’alcol e da un tannino non del tutto maturo – 86/100.
Châteauneuf-du-Pape Rouge 2014
annata ben interpretata con estrazione tannica calibrata e attenta; un vino saporito e schietto – 88/100.
Châteauneuf-du-Pape Font de Crau 2012
60 % di grenache e 40% di mourvèdre; selezione parcellare vinificata in acciaio, solo 1000 bt prodotte, ottima purezza di frutto fra note di agrumi e garrigue, carattere mediterraneo, sentori di ginestra e spezie esotiche, anche molto balsamico con ritorni di liquirizia; le movenze sul palato sono di assoluta eleganza e grande profondità di sorso, corroborate da una salinità infiltrante – 93/100.
Châteauneuf-du-Pape Rouge Font de Crau 2013
le difficoltà a mascherare un’annata non proprio eccellente emergono nettamente e la rigidità tannica si fa protagonista; da attendere senza eccessive speranze – 86/100.
Châteauneuf-du-Pape Rouge Font de Crau 2014
convincente souplesse e buona lunghezza, da bere a temperatura moderata, molto piacevole, non complesso – 88/100.
Châteauneuf-du-Pape Rouge Font de Crau 2007
uno dei primi imbottigliamenti di questa selezione, possiede alcol generoso e note calde di frutta matura al naso; in bocca convince per la dinamica e per l’ottimo equilibrio tra alcol e acidità – 89/100.
Paul Autard
Produttore che ha una visione molto personale della vinificazione, schematica e molto controllata nella gestione tecnica, in sintonia con i gusti dei mercati anglosassoni.
Châteauneuf-du-Pape Rouge 2014
70% grenache, 20 syrah, 10 mourvèdre; legno ben presente che marca con la sua dolcezza il finale – 83/100.
Châteauneuf-du-Pape Rouge 2015
In questo caso una maggiore presenza fruttata bilancia la presenza del rovere – 85/100.
Châteauneuf-du-Pape Rouge La Côte Ronde 2014
50% grenache e 50% syrah; con 18 mesi di barrique nuove la materia fatica ad emergere, pur se il finale sapido e minerale lo riporta in quota – 85/100.
Châteauneuf-du-Pape Rouge La Côte Ronde 2015
Una miscela esplosiva fra alcol, legno e frutto, un vino che ha qualche tratto caricaturale ma è polposo, con tannini dolci e saporiti; necessita di tempo in bottiglia – 88/100.
Châteauneuf-du-Pape Juline 2015
Syrah e Grenache in parti uguali e un uso dei legni spregiudicato e invasivo; la materia prima è ottenuta da una selezione molto accurata ma il finale fatica a emergere – 84/100.
Claudio Corrieri
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Novembre 2016 – Armenia: quì è nato il vino
L’amico Paolo Valdastri mi ha inviato un interessantissimo reportage sui vini armeni, che vi propongo direttamente. Buona lettura.
Armenia: qui è nato il vino di Paolo Valdastri
La storia di Zorah e del suo “Why Not?”.
In Armenia sono stati ritrovati vinaccioli che farebbero risalire l’origine della tradizione vinicola a 5000 anni fa, così come l’esistenza di circa 500 vitigni autoctoni differenti confermerebbero la tesi secondo la quale il vino sarebbe nato in quest’area.
In vicinanza del monte Ararat non può che tornare alla mente l’immagine di Noè che beve il succo fermentato della vite e si inebria, ed è impressionante sapere che qui vicino è stata scoperta la cantina più vecchia del mondo, con datazione di 6100 anni, ritrovata durante le campagne di scavo di Areni-1, nella regione armena dello Yeghegnadzor.
La vinificazione avviene da allora nelle karasì o kwevri, grandi anfore di coccio seppellite sotto terra, dentro le quali tradizionalmente si metteva il grappolo intero, raspi compresi. Il vino ottenuto restava a lungo in contatto con le fecce o addirittura lo si svinava al momento di berlo. Questo metodo, come sarà noto, è stato ripreso di recente ed in molte aree vinicole stanno fiorendo i cosiddetti vini “in anfora” o macerativi, tra i quali si collocano gli “orange wines”, vini bianchi vinificati in rosso, ovvero in contatto con le bucce. Ovviamente le vinificazioni attuali seguono queste tradizioni, ma applicando molte delle moderne conoscenze soprattutto nel campo dell’igiene in cantina, e i vini che si ottengono si possono a tutti gli effetti considerare tra i vini più interessanti sul mercato, ancorché dividano violentemente i giudizi dei critici e il gradimento dei consumatori.
L’Armenia, paese sotto i riflettori della cronaca (ha celebrato il 24 aprile 2015 i cento anni dall’eccidio e dalle deportazioni subite da parte degli ottomani), possiede questo patrimonio storico. Purtroppo le uccisioni e le deportazioni hanno frenato lo sviluppo di questa nazione, ma attualmente qualcosa sembra cominciare a muoversi.
Ho conosciuto Zorik Gharibian qualche anno fa ad un Vinitaly. Uno stand affollatissimo: in un angolo noto un personaggio dal volto aperto e sorridente, tranquillo tanto da sembrare insensibile alla confusione che lo circonda. Ci guardiamo e sorride di nuovo leggendo il mio sguardo perplesso e interrogativo di fronte al nome dell’azienda: ZORAH. “Siamo Armeni” mi dice, “vuole assaggiare il mio vino?”. Come invitare la lepre a correre! Ma non prima di avere ascoltato la sua storia.
Zorik Gharibian, accompagnato da Yeraz Tomassians, è uno dei discendenti della popolazione sopravvissuta agli eccidi di inizio ‘900 che ha deciso di interrompere la diaspora e di conoscere la terra dei suoi avi. Imprenditore nel mondo della moda, con studi a Venezia, mette piede in Armenia per la prima volta quando è già adulto. Qui capisce subito che esiste una cultura del vino dalle radici profonde. Zorik stava meditando sulla possibilità di impiantare un vigneto in Toscana, ma quando è arrivato in Armenia, in mezzo alle sue montagne, in panorami che si aprono su scenari aerei, è stato folgorato da un’idea: il ritorno alle origini non era stato casuale. Vuole realizzare un sogno: produrre in questa terra il vino, un grande vino, con i metodi antichi degli avi. Non per niente il suo motto è “ The future belongs to those who believe in the beauty of their dreams”. Sogna cose mai esistite e si chiede: “Why not?”.
Decide di far rinascere tutti i valori della viticoltura tradizionale, ma con un approccio moderno per creare vini profondi che parlino di questi luoghi magici. Passa dal sogno alla concretezza e mette insieme un team di professionisti che in dieci anni di lavoro raggiunge la prima vendemmia. Il suo obbiettivo è quello di creare un vino che possa competere con i migliori del mondo, ma grazie principalmente al suo legame con il territorio di origine, senza tecniche invasive.
Quando mi dice da chi è composto il team non posso che esclamare “ma quanto è piccolo il mondo!!”. Si tratta di Alberto Antonini e dell’amico Stefano Bartolomei di bolgheresi frequentazioni. Una bellissima sfida vedere dei personaggi così competenti, ma nati e vissuti accanto all’uso del rovere, cimentarsi con un mezzo “antico e nuovo” allo stesso tempo come l’anfora.
La ricerca dei luoghi migliori dove impiantare la vigna ha richiesto il suo tempo. Siamo ad una latitudine dai 5 ai 7 gradi più a sud dei vigneti francesi. Le temperature durante il giorno in estate sono molto elevate e quindi occorre compensare con l’altitudine: gran parte dei vigneti si trovano tra i 700 e i 1700 m slm.
La scelta cade proprio sul territorio di Yeghegnadzor, su di un terreno di fronte al quale a poca distanza giace il sito della più vecchia cantina del mondo. Siamo a 1400 metri di altezza, con un microclima straordinario e forti escursioni termiche fra giorno e notte. Qui la maturazione avviene lentamente e progressivamente spingendo la vendemmia fino al mese di ottobre. I suoli sono rocciosi, ricchi di calcare, con capacità di trattenere quel tanto di umidità necessaria a superare le siccità estive, considerando che l’irrigazione in Armenia è una pratica generalizzata e necessaria.
Le viti provengono da un’attenta selezione massale da un vigneto abbandonato di un vicino monastero del XIII secolo e sono piantate su piede franco. Qui la fillossera non è mai arrivata e le varietà antiche possono esprimersi così in tutta la loro originale purezza. La varietà principale è l’Areni Noir, presente su 10 ettari e in una vigna cru che si trova a 1600 metri slm. L’Areni ha sviluppato una buccia molto spessa che lo protegge dalle forti escursioni termiche conservando eleganza e freschezza di frutto.
Gli interventi in vigna sono ridotti al minimo con un concetto che ricorda il “minimal pruning” australiano. Nella vigna più alta si entra addirittura soltanto due volte: una volta per potare e una volta per vendemmiare. La scelta del momento in cui vendemmiare è delicatissima: a queste altitudini la maturazione è lenta e combatte con le variazioni di clima dell’autunno e per questo un’errata previsione meteo può causare danni ingenti. Poi si va in cantina, tra le file di anfore. Zorik è partito dall’idea di utilizzare anfore tradizionali armene, ma quando ha cercato chi le produceva si è accorto che non esisteva più nessun artigiano con il mestiere necessario e le conoscenze necessarie a realizzare questi contenitori. È riuscito a convincere i locali a riprendere la produzione di anfore, ma nel frattempo ha dovuto cercare un espediente per non perdere i primi raccolti di uva. Allora è andato casa per casa a cercare le vecchie anfore abbandonate, anfore che erano posizionate sotto terra e sotto le case stesse. Anfore grandi quanto una o più stanze abitative e dunque la loro estrazione significava la demolizione della casa soprastante. Quando Zorik ha proposto questa soluzione ai proprietari delle case e ha garantito la ricostruzione delle case con materiali e finiture nuove di zecca, questi sono stati felicissimi di aderire e lo hanno lasciato estrarre le anfore. Qualcuna si è rotta nell’operazione, ma Zorik è riuscito a ricavare un numero di recipienti sufficiente ad iniziare la sua produzione.
Assaggio il Karasì 2012. Il nome è la traduzione armena di anfora. Per la precisione un terzo è vinificato in acciaio, un terzo in botte grande, un terzo in anfora sigillata con cera e interrata, dove riposa per 10 mesi, poi viene assemblato per passare altri 6 mesi in bottiglia.
Il colore è rubino brillante gioioso e trasparente. Portando il bicchiere al naso si entra in un mondo etereo fatto di sensazioni aromatiche intense di erbe e di macchia selvaggia, di bacche nere, di frutto rosso come l’amarena, il tutto reso complesso e intrigante da un sottofondo leggermente affumicato. In bocca è immediatamente succoso, fresco e slanciato con un tannino dolce e una presenza alcolica che contrasta bene con la forte sapidità e la scattante acidità. Grande eleganza, ma soprattutto equilibrio e una bevibilità che invita al riassaggio ad ogni sorso anche se la lunghezza non è eccezionale. Lascia intravedere una grande capacità di invecchiamento grazie alle doti acide e sapide e alla maturità del tannino.
Il Karasì 2013 ha caratteristiche simili. Più condotto dal frutto, con lamponi e fragoline di bosco in evidenza, ha pari slancio e freschezza. Stilisticamente ricorda un vino del sud Rodano.
Yeraz 2012 è un cru dalle vecchie vigne, sempre di Areni noir, recuperate a 1600m di altezza. Riposa per due anni in parte in anfora e in parte in botte grande da 31hl non tostata. Ha un bel frutto rosso di ciliegia e ribes. Palato fresco, piccante, teso, è elegante e slanciato con una bella presa che prolunga piacevolmente il sorso.
Voskì Bianco 2013. Ci sono voluti otto anni per selezionare due vitigni tra le decine e decine di possibili varietà presenti nella zona. Alla fine la scelta è caduta sul Voskeat e sul Garandmak, entrambe vitigni nativi dell’Armenia. le viti derivano da una selezione massale della vecchia vigna su piede franco a 1400 m. slm.
Il Voskeat, letteralmente il “seme d’oro”, è utilizzato sia come uva da tavola che come uva da vino. I grappoli sono medio-grandi, cilindro-conici, non troppo compatti, acino medio, sferico o leggermente ellittico, buccia spessa, bianca che diventa gialla ambrata a maturità, polpa succosa alto contenuto zuccherino. Vitigno vigoroso, ma molto sensibile a oidio e peronospora, di seconda epoca tardiva. Ha aromi tipici di agrume candito con ricordi di noce. Il Garanmak, letteralmente “coda grassa”, è una delle uve più diffuse. Molto resistente, ha buccia verde-gialla con acini grandi e buccia spessa, grappoli compatti.
La vinificazione avviene in cemento tronco conico con lieviti naturali, poi il vino passa in anfora per 11 mesi, quindi si affina per 6 mesi in bottiglia.
Al naso ha profumi di frutta bianca candita, albicocca e agrumi, una speziatura delicata che ricorda il lemon grass e fiori bianchi di campo. In bocca è pieno, ma vibrante per acidità e sapidità, appagante e lungo.
Un progetto affascinante per un gran bel vino, insomma, della stessa bellezza esteriore ed interiore di persone vere come Zorik e Yeraz, grazie alle quali il vino più antico del mondo potrà tornare a dare emozioni e sensazioni nuove e attuali. E riesco appena ad immaginare, guardando le foto dei loro vigneti, cosa potrebbe significare in termini emotivi una visita in questi territori. Why not?
Paolo Valdastri
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Duckhorn, la California, il Merlot – Settembre 2017
Tanto per andare controcorrente, in tempi di vitigni autoctoni e “no-barrique”, giunge a proposito questo interessante articolo di Paolo Valdastri sui Merlot della Duckhorn Winery, azienda californiana di solida reputazione. Da parte mia non ho, come sempre, nessun pregiudizio sulla qualità sicuramente elevata dei vini (che peraltro non ho assaggiato), ma non sapevo – s’impara sempre qualcosa – che il Merlot si abbinasse bene “con una miriade di cibi differenti”, come afferma Dan Duckhorn. La domanda nasce spontanea: ma cosa mangiano ‘sti americani?
ergentili
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DUCKHORN E L’AMORE PER IL MERLOT
di Paolo Valdastri
“Pochi dei grandi vini californiani – oggi venduti anche per centinaia o migliaia di dollari la bottiglia – hanno visto la luce prima del 1980” riporta Hugh Johnson nel suo Atlante Mondiale dei Vini, parlando del cuore pulsante del vino statunitense, la Napa Valley.
Dan e Margaret Duckhorn fondarono l’azienda che porta il loro nome nel 1976, cominciando a piantare Cabernet Sauvignon e immediatamente dopo Merlot. Proprio il Merlot fu preso da subito come varietà fondamentale per l’azienda per produrre vini in purezza, quando, per tutti gli altri produttori, questo vitigno era un semplice complemento nei blend basati sul Cabernet. Dan aveva conosciuto il Merlot viaggiando per la riva destra di Bordeaux, e se ne era subito innamorato, ma il suo approccio a questo vino è tipicamente americano. “Mi piace la morbidezza, il potere di seduzione, il colore”, dice Dan, “il fatto che si abbini bene con una miriade di cibi differenti, non è massiccio e non richiede lunghi invecchiamenti, ma ha questa trama vellutata che, a mio parere, ne fa un vino di puro godimento.”
Questo non significa che Dan si contenti di un Merlot qualsiasi, ma è, fin dall’inizio, alla continua ricerca della migliore qualità possibile, ponendo l’accento sul sito di produzione e sul relativo terroir.
Ad oggi Duckhorn ha sette vigneti aziendali collocati sui suoli alluvionali della Napa e sui versanti migliori della Howell Mountain. Poi è compito della enologa Renée Ary scegliere, selezionare, assemblare tra circa 200 lotti diversi utilizzando la degustazione e l’istinto invece dei protocolli analitici. I vini sono maturati in legno separatamente in lotti, vigneto per vigneto, utilizzando un complesso programma di selezione delle barrique che prevede l’utilizzo di 25 differenti tipi di rovere da 13 diverse tonnellerie. Per questo motivo la gamma di vini in offerta è ampia e complessa, con sette tipi di Merlot, otto di Cabernet Sauvignon, due di Cabernet Franc, un Petit Verdot, oltre ai bianchi e ad un blend rosso.
Ma il focus è sempre e comunque il Merlot. Nessuna meraviglia, quindi, nell’incontrare nel bolgherese alcuni “emissari” della Duckhorn Vineyards in religiosa e attenta visita presso Masseto, con relativi assaggi e meditazioni comparative.
In attesa di una visita completa in azienda per poter assaggiare tutta la vasta gamma di vini prodotti, cominciamo da due etichette di Merlot provenienti da un’annata non facile, la 2010. Annata particolarmente fredda, ma questo per il Merlot appare più un vantaggio che un inconveniente. Primavera bagnata e accrescimento in clima mite hanno portato ad una vendemmia ritardata di 15 giorni rispetto alla media. La vendemmia è stata difficile a causa di una forte ondata di calore seguita da piogge consistenti, fattori che hanno richiesto cure particolari e decisioni rapide durante il raccolto, che si è protratto addirittura dal 23 agosto al 3 novembre.
DUCKHORN VINEYARDS NAPA VALLEY MERLOT 2010
Si tratta del Merlot base dell’Azienda, prodotto con le uve provenienti dalle vigne aziendali e da quelle acquistate dai migliori viticoltori indipendenti della Napa Valley. In questa vendemmia il vino è composto da 90% Merlot, 9% Cabernet Sauvignon, 1% Cabernet Franc, mentre i legni impiegati sono “barrique” da 60 galloni in rovere francese al 25% nuove e 75% di secondo passaggio, con maturazione di 15 mesi.
Il vino ha colore rubino carico ancora giovane. I profumi sono intensi con frutto nero di mora, prugna e mirtillo ancora evidente, sormontato da una leggera nota vegetale di paprika, spezie fini e legno tropicale. In bocca ha una bella polpa matura fruttata, condotta da freschezza acida e da tannino consistente. Il finale è decisamente lungo e profondo.
Ottima bevibilità nonostante la struttura ed il grado alcolico di tutto rispetto.
Quotazione circa 60$.
DUCKHORN VINEYARDS NAPA VALLEY MERLOT THREE PALMS VINEYARD 2010
La vigna Three Palms è situata nella parte Nord-Est della Napa su un suolo alluvionale, ricoperto da rocce vulcaniche levigate nei secoli dalle acque che escono dal Dutch Henry Canyon, che gli conferiscono ottime doti drenanti e costringono le radici a discendere in profondità per trovare nutrienti ed acqua. Inoltre le rocce assorbono il calore solare durante il giorno e lo restituiscono di notte proteggendo le vigne durante le gelate e favorendo la maturazione del frutto in estate. Il primo impianto di quella che è una delle più famose vigne della Napa risale al 1968 a cura dei fratelli Sloan, ma nel 1990 fu attaccato dalla fillossera. Il reimpianto terminò nel 1999. Duckhorn aveva utilizzato le uve di questa vigna fin dal 1978, per poi acquistare i diritti in esclusiva di tutte le uve nel 2011.
Il vino è composto da 82% Merlot, 15% Cabernet Sauvignon, 2% Cabernet Franc, 1% Petit Verdot. Il periodo di vendemmia si è svolto dal 4 settembre al 3 novembre. Maturazione per 18 mesi in barrique da 60 galloni di rovere francese al 68% nuove e 32% di secondo passaggio.
Il vino ha colore rubino carico ma luminoso. Ha un naso complesso e sfaccettato che si apre con frutto rosso e nero subito vivacizzato dall’intervento del rovere molto ben integrato. Ecco allora note di cioccolato, cacao amaro, balsamiche di menta e pepe nero, terra di sottobosco. C’è dunque un lieve richiamo vegetale ma del tutto piacevole. In bocca ha una bella polpa fruttata con cacao, caffè e liquirizia. Non c’è invece la possanza aggressiva tipica di alcuni vini della Napa, non è particolarmente profondo ma risalta piuttosto una sensazione di leggerezza e delicatezza nel finale comunque lungo.
Gran bel vino che ha ancora davanti a sé molti anni di affinamento in bottiglia in una buona cantina per far uscire nuove sfumature aromatiche.
Quotazione circa 110$
Paolo Valdastri
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Librandi e la Calabria: il mediterraneo in bottiglia – Luglio 2018
Nel contemplare il territorio calabrese bastano pochi minuti per rimanere sorpresi dalla serie di rilievi male accordati tra di loro e dalla pressoché assenza di zone pianeggianti. Una regione eminentemente montuosa con una propria individualità geologica e morfologica, dove tali sporgenze sono contraddistinte da dorsali addolcite o da spianate; e in basso da valli, spesso aspre, in fondo alle quali si allargano i letti coperti da detriti dei rovinosi torrenti (fiumare)…..
Così inizia l’articolo scritto, con la consueta sensibilità, da Emanuele Alessandro Gobbi sul suo incontro calabrese con la famiglia Librandi. Per continuare a leggerlo è sufficiente cliccare sopra l’immagine sottostante.
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Giugno 2017 – Cronache del Rodano – parte sesta
a cura di Claudio Corrieri
Domaine de la Janasse
Storica azienda di Courthezon, con varie parcelle sia su terreni sabbiosi sia su terreni a “galets roulet” per un totale di 90 ettari di vigna (non tutti ovviamente a Châteauneuf-du-Pape), magistralmente guidata dai fratelli Cristophe e Isabel Sabon che hanno colto l’occasione del salone del Rodano per presentare la nuova proprietà recentemente acquisita, Clos St Antonin, nel comune di Jonquieres, dove andranno in produzione Plan de Dieu ma anche Châteauneuf-du-Pape.
Châteauneuf-du-Pape Tradition 2015
Cuvée di grenache per il 70%, più un 15% di syrah, con mourvèdre e cinsault a completare; vino molto ricco e denso, dal colore intenso e profondo, particolarmente accattivante, non passa certo inosservato. Ha carattere e un finale fresco dai toni balsamici – 89/100.
Châteauneuf-du-Pape Chaupin 2015
Grenache in purezza; in questo caso il vino stacca per eleganza e carattere. Proveniente da terreni più freddi e tardivi (il lieut dit Chaupin, appunto) non mostra cedimenti e ha propulsione dinamica e una carnosità saporita, di bella tattilità; il finale è lungo, salino, sostenuto da un ricco corredo acido – 94/100.
Châteauneuf-du-Pape Vielles Vignes 2015
Grenache per l’80%, il resto è suddiviso fra syrah e mourvèdre; l’età del vigneto aiuta a dominare la generosità e l’esuberanza dell’annata 2015, garantendo gli equilibri ottimali e la giusta verticalità del sapore, anche se risulta lievemente meno dettagliato ed elegante del precedente – 92/100.
Châteauneuf-du-Pape Tradition 2011
Proveniente da una annata partita con una eccezionale precocità in fioritura, per chiudere con un’abbondante produzione e un’ottima maturità di frutto, questa campionatura ha nervatura acida, ricchezza di frutto e buona lunghezza sul finale – 90/100.
Domaine Biscarelle
È una azienda che, dopo un lungo periodo dedicato al conferimento di uve ad altri produttori, ha iniziato l’attività di imbottigliatore solo dal 2009 e oggi cerca di aprirsi un varco nella serrata competizione presente in Rodano. Jerome Grieco, la titolare, vinifica senza troppi formalismi, cercando di estrarre dalle uve il carattere profondo del territorio di origine, con l’ausilio in vinificazione del solo cemento e spesso vinificando a grappolo intero. Da seguire con attenzione.
C e S Grieco 2015
Cinsault 100%; risulta molto originale nel taglio e nell’ideazione, con tratti sapidi, una bella connotazione tattile corredata da una stimolante acidità che conferisce una beva agilissima e saporita – 88/100.
Côtes-du-Rhône 2015
La “mano” si conferma buona e misurata anche in questa seconda cuvée che risulta saporita e gustosa – 87/100.
Côtes-du-Rhône les Grands St Paul 2015
Vino tosto, dal fondo minerale, con note di spezie e liquirizia nel finale accattivante – 89/100.
Châteauneuf-du-Pape Les Anglaises 2015
Solo grenache per una cuvée giocata fra acidità e tensione, con sentori di spezie, terra, liquirizia, frutta matura; non mancano alcune imprecisioni aromatiche largamente compensate da una bocca carnosa che ha ritmo incalzante e un cambio di passo continuo e coinvolgente – 91/100.
Châteauneuf-du-Pape Les Anglaises 2010
Ecco la grande annata che mostra un equilibrio raffinato, con il sorso freschissimo e un’articolazione perfettamente definita nei dettagli; un’ottima riuscita e una bottiglia in splendida forma – 93/100.
Claudio Corrieri
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Dal Syrah al Petit Verdot…Usiglian del Vescovo
Con una gamma produttiva che spazia dal Syrah al Petit Verdot, dal tradizionale Chianti agli uvaggi internazionali, dal Rosato allo Spumante, senza tralasciare il Vin Santo e un bianco a base di chardonnay e viognier, Usiglian del Vescovo è un’azienda molto eclettica e, non di meno, assai affidabile sotto il profilo qualitativo. Se dovessi citare la bottiglia più sorprendente tra quelle assaggiate, la mia scelta ricadrebbe senz’altro sul Chianti Superiore 2015, ma il vino più ambizioso è certamente il MilleEottantatre, ricavato da uve petit verdot in purezza. L’annata 2013 mi è sembrata in effetti particolarmente riuscita e le note di assaggio pubblicate in “Ratings”, nella rispettiva Scheda Aziendale, lo stanno a confermare:
“di colore molto scuro e brillante, presenta profumi articolati su note di mirtilli, liquirizia, cioccolato bianco; in bocca è fresco, continuo, dinamico, lungo, un filo tannico in chiusura ma di ottime prospettive”.
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Feb 05 2019
La Cantina Puianello e il Lambrusco Reggiano
La prima puntata delle recensioni dedicate al Lambrusco – grazie alla preziosa collaborazione di Alfredo “Ciccio” Grasselli – è assorbita per intero dai vini della Cantina Puianello, importante Cantina Sociale dell’area reggiana. Si tratta di vini piacevoli e ben fatti che mostrano una rassicurante compattezza qualitativa; l’Ancestrale Rosso (unico IGT del gruppo) guida la folta …