Quella del “limite nord” è una singolare teoria diffusa da tempo nel mondo del vino. Non ha nessun concreto fondamento scientifico ma rappresenta un punto di vista nel quale trovo molte suggestioni positive e che parte dalla semplice osservazione che le zone di produzione (e le vette qualitative più elevate) di alcune prestigiose tipologie di vino si trovano – nei terreni vocati, ovviamente – al limite nord di coltivazione dei vitigni che le caratterizzano. Oltre il limite – da intendere soprattutto come latitudine ma senza escludere altri fattori come l’altitudine, l’esposizione e così via – quelle determinate uve non maturano ed è inutile coltivarle. Nei pressi del confine, invece si arriva sì faticosamente e lentamente a maturazione, ma alla resa dei conti ciò si rivela un vantaggio in quanto consente ai tannini (nei vini rossi) di ammorbidirsi, alle acidità di non crollare a picco, agli zuccheri di non salire vertiginosamente e alle escursioni termiche (naturalmente più accentuate) di esaltare i caratteri aromatici.
Ci sono zone migliori della Borgogna per il Pinot Nero e lo Chardonnay (non spumantizzati ovviamente)? O di Pomerol per il Merlot o del Rodano del Nord per il Syrah? Lo stesso vale per il Nebbiolo, il Sangiovese, l’Aglianico e quant’altro ovviamente. E, tanto per non creare equivoci, è un concetto che non discrimina il Sud: l’Etna costituisce evidentemente il limite nord del Nerello Mascalese.
Certamente le variazioni climatiche – e ancor più le pratiche viticole – hanno gradualmente spostato il “limite” e il Nebbiolo si è spinto nell’Alto Piemonte e in Valtellina, il sangiovese nelle colline più alte del Chianti, la Valle Isarco ha assunto un inedito ruolo da protagonista nell’enologia altoatesina e via dicendo. In pari misura è facile osservare come i tempi di maturazione del pinot nero in Borgogna o del Merlot a Bordeaux si siano mediamente accorciati e quindi il punto di confine non sia più così tanto preciso.
Ma non è così importante stabilire dove dobbiamo tirare la riga, quanto il fatto che tale visione non include nell’idea di grande vino caratteri come la concentrazione e l’esibizione superficiale di ricchezza ma l’armonia, la finezza e la profondità. Si può forse disconoscere – pesco a caso e non in “casa nostra” – la grandezza di Romanée-Conti, di Château Ausone, Margaux o Rayas? E questi vini sono forse passati alla storia per la loro concentrazione smisurata?
Il filo conduttore resta l’equilibrio, il rapporto ideale tra calore e freschezza, tra profumi e struttura. Gli eccessi (come le carenze) di alcol, di acidità, di carica tannica, di maturazione del frutto (tralasciando per ora le pratiche di cantina), coprono e nascondono l’espressività di un vino, il suo carattere. Conciliare l’equilibrio con la personalità è l’obiettivo, la vera, concreta, pragmatica linea di confine da raggiungere e ogni produttore, a prescindere dalla collocazione dei propri vigneti, ha a disposizione una miriade di scelte – in campo e in cantina – che lo avvicinano o lo allontanano da quel punto ideale e (forse) immaginario.
Ma il tema è solo abbozzato e tornerò a parlarne a breve.