Molti ricordano Avignonesi per quegli opulenti, densissimi e dolcissimi Vin Santo di Montepulciano e, segnatamente, per il loro leggendario Occhio di Pernice. A qualche piano sottostante, in termini di notorietà, si piazzava il Toro Desiderio, uno dei primissimi e apprezzati Merlot in purezza toscani, mentre buoni ma prevedibili, decisamente convenzionali nello stile e non così memorabili erano i Nobile dell’azienda appartenuta un tempo alla famiglia Falvo.
Le cose, compresa la proprietà, sono cambiate da un po’ di anni, l’azienda è oggi diretta da una volitiva signora belga, Virginie Saverys, che ha convertito, sin dall’inizio e con assoluta dedizione, la gestione dei vigneti (175 ettari!) alle pratiche biodinamiche, con l’evidente intento di rivoluzionare la filosofia e gli obiettivi aziendali, partendo dagli atteggiamenti operativi nel quotidiano e proiettandoli in un’ottica futura, con conseguenze teoricamente inevitabili sullo stile dei vini.
A questo punto è però opportuno sottolineare che, dato che la mia equidistanza da posizioni ideologiche è proverbiale e famosa – almeno tra le mura domestiche – quanto l’Occhio di Pernice di Avignonesi, per me il fatto di sapere che un produttore è o non è bio non sposta di un millimetro le valutazioni dei suoi vini. Anche perché assaggiando alla cieca non potrei avere alcuna informazione al riguardo.
Venendo quindi al sodo, taglio corto dicendo che non ho provato in questa occasione i mitici vini dolci della Casa ma solo i rossi e debbo ammettere che non ho memoria di averli apprezzati in passato in modo altrettanto unanime e soddisfacente. E tanto per offrire qualche dettaglio supplementare, condenserò sommariamente lo stacco stilistico con i “vecchi” Avignonesi in due parole: dinamismo e profondità. In sintesi, sono questi gli aspetti più vistosi che mi hanno colpito ma potrei aggiungere la percezione evidente di una palpitante naturalezza espressiva e altro ancora che chi è abbonato potrà ricavare dalla lettura delle note di assaggio.