C’È REPORT E REPORT

Mi dispiace che una delle pagine di questo sito abbia lo stesso titolo della trasmissione televisiva ma, come si dice, non facciamo ricadere sui “figli” le colpe dei padri. Una battuta amara in quanto, nonostante qualche inciampo occasionale, ho sempre avuto stima del Report televisivo; purtroppo però, anche nella seconda puntata dedicata al vino si persevera negli errori e nell’approssimazione, fornendo un cattivo servizio di informazione agli spettatori, gran parte dei quali, ricordiamolo, sa ben poco dell’argomento.

Certamente sono cambiati i toni, si è saggiamente limitato il raggio di azione dell’inchiesta, ma alla fine il risultato è stato scoraggiante. MCR e lieviti selezionati sono per Report la fonte di tutti i problemi. In sintesi, si parte dall’assunto “chi fa trattamenti sistemici nel vigneto uccide i lieviti indigeni per cui non gli resta che usare quelli selezionati”. E, ovviamente, i diabolici lieviti selezionati sono i responsabili dell’omologazione di sapori e profumi. Non contano niente il territorio, il clima, l’esposizione, la giacitura dei vigneti, il tipo di uva utilizzata e le altre mille variabili che contribuiscono alla nascita di un vino. Generazioni di vignaioli, enologi e scrittori insigni si sono smarrite in un racconto solo immaginato ma in realtà non avevano capito niente del VINO, i cui misteri sono stati svelati in poche ore di trasmissione da una redazione televisiva. Nei confronti della quale buona parte del settore ha così reagito: ma come, in questi due mesi non avete trovato nessuno che vi ha detto che stavate prendendo un granchio? Non avete altri argomenti da tirare fuori? Tutto qui?
Poi, dopo aver sentito definire WineandSiena come uno degli eventi più importanti del panorama nazionale e aver scoperto, bontà loro, che ci sono perfino due produttori (uno scovato in Abruzzo e uno in Veneto) dall’animo puro, qualche dubbio che ci stiano prendendo in giro può anche sorgere.
Poniamo allora il caso che in quello che ci viene fatto vedere e sentire non ci sia niente di casuale e di banalmente sprovveduto. Proviamo quindi a rovesciare le posizioni e guardare con gli occhi del vero destinatario dell’inchiesta, ovvero “il cittadino qualunque” che, come milioni di italiani, il vino lo compra nella GDO. Sulle bottiglie ordinate sugli scaffali ci sono tante informazioni ma non chiariscono perché vini della stessa denominazione di origine abbiano un prezzo che varia da due, anzi da 1,99 euro (ne ho visto giusto uno ieri), a 25 euro che, probabilmente è molto più buono ma fuori dalle tasche di chi consuma una bottiglia tutti i giorni o quasi. Magari 1,99 saranno troppo pochi e rendono perplesso il nostro consumatore che comunque una da 3/4 euro alla fine la compra. Però, insomma, anche in quella che costa meno c’è riportato chiaramente il nome della stessa DOC/DOP che una certa garanzia a un consumatore la dovrebbe dare. O no?
Indubbiamente la presenza dell’indicazione di una denominazione è assai meglio di niente ma, lasciando da parte la storiella dei lieviti, Report – scava, scava – ha sollevato un problema concreto (il nemico in casa..) e l’etichetta non aiuta a dipanarlo: non chiarisce se il produttore è un commerciante da decine di milioni di bottiglie che, se va bene, ricorre a tutte, ripeto tutte, le pratiche lecite (come ha detto la televisione..), oppure, tralasciando le figure intermedie, se rappresenta un’azienda familiare di piccole dimensioni che lavora in modo artigianale. La scritta, in piccolo, riportata nel retro dell’etichetta “imbottigliato all’origine” e formule simili, dovrebbe, a detta del legislatore, eliminare i dubbi ma, insomma, proprio chiara chiara non lo è per nessuno, figuriamoci per “il cittadino qualunque”. Siamo sicuri che non si possa fare di meglio per mettere in maggiore evidenza la diversità “strutturale” tra un produttore e l’altro?
Eccoci quindi al punto. Ho già accennato qui del calo di consumo del vino, anche a livello mondiale. A Bordeaux e in Cile, tanto per fare un paio di esempi, sono stati espiantati migliaia di ettari di vigna. E siamo solo agli inizi. Parallelamente molte delle nostre denominazioni e dei relativi consorzi di tutela hanno iniziato da anni meritorie operazioni di valorizzazione dei singoli territori, con individuazione di cru e sottozone che accentuano il senso di identità di un vino; nello stesso tempo però non riescono a liberarsi – o non vogliono farlo – del fardello del grosso imbottigliatore che propone vini “parimente denominati” a prezzi insostenibili per gli altri e penalizzanti per l’immagine della denominazione. Ma forse il “grosso imbottigliatore” a qualcuno farà pure comodo averlo, soprattutto quando la produzione è in esubero e/o si fa fatica a venderla.
Le contraddizioni però restano, il nemico interno (vero o presunto, in fondo anche gli imbottigliatori hanno un’anima) è stato individuato (dalla TV di stato) e, sulla base delle tendenze mondiali, quel che sembra certo è che una politica di produzione in eccesso abbia poco futuro.
Il momento di prendere decisioni non è troppo rimandabile, sperando di non dover attendere il suggerimento dalla prossima puntata.

TUTTI A RAPPORTO

La recente puntata di Report sul vino ha innescato una serie di reazioni prevedibili e inevitabili da parte dei vari operatori di settore e la successiva intervista rilasciata da Sigfrido Ranucci al Gambero Rosso non ha certo contribuito ad addolcire la pillola. Ne hanno già parlato abbondantemente un po’ tutti e non voglio aggiungere più di tanto a quello che è già stato detto e scritto. Mi limito a prendere atto che al giorno d’oggi ogni occasione sembra essere buona per creare un ulteriore e diffuso senso di delusione e sgomento.

Deludente è la reazione del mondo della produzione che, ogni volta che si sente minacciato, si arrocca e fa le barricate, perdendo anche le occasioni utili per rendere sempre più trasparente il proprio operato e offrendo appigli ai quali attaccarsi per montare una specie d’inchiesta giornalistica. Si può dire o no che quell’aria infastidita e un po’ supponente che hanno alcuni addetti ai lavori, interpellati in simili situazioni, non sia molto piacevole a vedersi? E si può dire che per alcuni, ma temo per molti di loro, il “bravo” giornalista non deve fare né domande né critiche scomode? E altrettanto deludente è proprio il comportamento dei “bravi” giornalisti che accettano sin troppo volentieri il ruolo loro assegnato: scrivono solo belle cose e non importa se sono un po’ fasulle, perché, alla resa dei conti, la loro funzione non è di informare correttamente ma contribuire alla promozione del vino, per vendere più e meglio, altrimenti sono contro il made in Italy, contro la patria e forse non vogliono bene neanche alla mamma.

Ma in fondo sono quisquilie e pinzillacchere rispetto all’operato di Report. Per la trasmissione televisiva e il suo conduttore poteva essere l’occasione per recuperare terreno rispetto al primo ben noto (e già criticato) intervento sul vino di quasi venti anni fa, quando la conduttrice era Milena Gabbanelli. Credo si sia fatto decisamente peggio. Unitamente a molti altri colleghi, anche se mi occupo di vino da almeno trent’anni, ho sempre evitato di addentrarmi eccessivamente in argomenti esclusivamente tecnici e constatare con quale superficialità e impreparazione trasmissioni come Report si avventurino in certi campi, sommando errori e approssimazioni oltre a creare equivoci, mi lascia non solo basito ma profondamente deluso. Nessun reale approfondimento ma montaggi artificiosi, funzionali a sostenere un triste gioco di allusioni che non portano a niente, se non a screditare, oltre a chi nel settore lavora bene e onestamente, anche la reputazione della stessa trasmissione. Non spacciamo per favore questi servizi per giornalismo d’inchiesta, il filo conduttore è l’individuazione di qualche motivo, più presunto che vero, che possa suscitare attenzione, alla probabile ricerca di un piccolo scandalo, di una fantomatica pentola da scoperchiare da dare in pasto a un pubblico sempre più confuso e incapace di pensare con la propria testa. Ormai quello che conta oggigiorno è l’apparenza, il numero di “like”, la diabolica spirale dell’audience.

 

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