SELEZIONE VINI 2023: le “Stelle” dell’anno, episodio N. 3

Il vino selezionato oggi, pur non facendo parte delle firme storiche, ha già raggiunto, in pochi anni dal suo recente esordio, una reputazione invidiabile. Proviene da Gaiole in Chianti, è una Riserva di Chianti Classico prodotta da Maurizio Alongi e Vigna Barbischio è il suo nome. Un’etichetta ormai ben conosciuta dagli appassionati più attenti ma che continua a stupire, anche in annate come la 2020, millesimo tanto interessante quanto disomogeneo e dal quale, quindi, non era scontato attendersi fuochi d’artificio.
 Ebbene il “Barbischio” ha superato anche il suo eccellente standard qualitativo, esibendo la finezza e la profondità dei vini di gran classe. Un rosso dall’armonia superiore combinata con un potenziale di longevità impensabile.
Eccellente insomma se lo beviamo subito, straordinario se lo facciamo maturare qualche altro anno in cantina.

Le note di degustazione sono consultabili qui, in area abbonati.

SELEZIONE VINI 2023: le “Stelle” dell’anno, episodio N. 2

In conclusione, o quasi, di ogni stagione di assaggio è inevitabile tirare un po’ le somme sulle caratteristiche delle varie annate esaminate, sui riscontri qualitativi dei vini provati, sulle evoluzioni stilistiche.
Mi sono sino ad ora limitato a pubblicare nei “Ratings” riservati agli abbonati (da seguire i continui aggiornamenti effettuati), i resoconti per tipologia e/o annata, che da ora in avanti saranno affiancati dalle raccolte di assaggi suddivisi per singolo produttore e inizio la rassegna con Querciabella, ben conosciuta azienda di Greve in Chianti.
Non è una scelta casuale vista la qualità impressionante espressa senza flessioni da una formidabile serie di vini tutti meritevoli di un’adeguata vetrina, a partire dalla complessità espressa dal Chianti Classico Gran Selezione, allo stile classico ed elegante della Riserva, senza tralasciare l’eccellente Palafreno, un Merlot in purezza che teme ben pochi confronti nel suo genere, e tanto meno l’ottimo Chianti Classico 2021. E se non bastasse ricordo che proprio da Querciabella arriva la stella più luminosa: il Camartina 2019.
Non sto trattando certamente di una novità, dato che è un’etichetta che a partire dalla fine degli anni ’80 ha regalato tante annate gloriose. Però ho qualche difficoltà a ricordare una qualità pari al livello raggiunto dalla 2019 assaggiata quest’anno. Un vino superbo del quale, per evitare di eccedere in lusinghe, non replicherò le note di assaggio che potrete comunque leggere, ovviamente se siete abbonati, cliccando qui.

SELEZIONE VINI 2023, aggiornamenti vari

La parte dedicata ai Report nella pagina RATINGS continua ad essere aggiornata con la pubblicazione degli ultimi assaggi. Nei giorni passati sono stati infatti completate le recensioni relative ai Chianti Classico 2019 (qui), ai Nobile di Montepulciano (qui) e ai Bianchi Toscani IGT (qui). Inutile dire che i maggiori motivi di interesse e attrazione sono costituiti dai primi due Report segnalati, con numerosi vini degni di sicuro interesse, mentre non posso essere altrettanto benevolo nei confronti dei Bianchi, meno brillanti anche dell’abituale, non eccelso, livello qualitativo.

TENDENZE 1: i disciplinari indisciplinati e altre storie

Appena dopo aver pubblicato (qui) le relative recensioni nella parte riservata agli abbonati, anticipo per tutti i lettori che uno dei vini, o meglio, il vino che più di qualsiasi altro ha sinora lasciato il segno, anche in termini di giudizio numerico, è un Chianti Classico. Per la precisione una Gran Selezione. Annata 2016. L’azienda è Isole e Olena. Potrei dire enfaticamente l’ultimo capolavoro di Paolo De Marchi nell’azienda di Barberino Val d’Elsa: il resto del mondo è tuttavia ancora a sua disposizione per altre performance simili e noi ci speriamo.
Un vino fantastico che vive un curioso paradosso in quanto oggi non potrebbe uscire sul mercato come Gran Selezione perché nell’uvaggio, oltre al Sangiovese, c’è un 10% sia di Cabernet Sauvignon sia di Syrah e il disciplinare di produzione nel frattempo è stato modificato e non prevede più uve cosiddette alloctone. Anche se presenti nel territorio da mezzo secolo o quasi.
Ora, io non faccio il paladino né del Chianti Classico, né di Isole e Olena, né del Cabernet, né di nessuno in particolare. Cerco solo di difendere il diritto del libero consumatore alla massima qualità possibile, al di là delle mode, delle fasulle e inconsistenti ideologie del momento, in breve del marketing da strapazzo; tutte voci che all’unisono oggi dicono, ad esempio, che il mercato premia i monovitigni, soprattutto se autoctoni. Il termine autoctono, in particolare, sembra essere vincente: vitigni autoctoni vinificati con lieviti (ovviamente) autoctoni, magari in contenitori autoctoni (vedi orci di terracotta), da vignaioli autoctoni e via dicendo. L’effetto è amplificato se al termine autoctono aggiungiamo “naturale”. Ho letto recentemente un fondo del Corriere della Sera, autorevolmente firmato da Alessandro Trocino, che sottolineava che i vini naturali sono realizzati con lieviti autoctoni e non con quelli selezionati che, a detta delle fonti citate dall’autore dell’articolo, “modificano colore e sapore dei vini”. Peccato che più di un’azienda “convenzionale”, ben lontana quindi dall’immagine fantasiosamente idilliaca del vino naturale, abbia sempre vinificato con lieviti autoctoni. Probabilmente non era a conoscenza che i lieviti selezionati hanno il (magico) potere di modificare non solo il colore ma anche il sapore dei vini…

Ma torniamo a Isole e Olena e all’accennato paradosso. Quarant’anni fa il solito disciplinare non permetteva di produrre Chianti Classico solo con Sangiovese (però iniziava ad aprirsi alle uve internazionali) e se volevi farlo eri costretto a proporlo come vino da tavola e solo successivamente come vino a Indicazione Geografica Tipica. Isole e Olena uscì sul mercato con il Cepparello, sangiovese in purezza, come Fontodi propose il Flaccianello, Fèlsina il Fontalloro, San Giusto a Rentennano il Percarlo e, ancora prima, Montevertine il Pergole Torte e via dicendo. Certamente questi sono gli esempi più virtuosi ma è vero che gran parte del Sangiovese presente in passato, non solo in Chianti Classico ma in tutta la Toscana, non dava le garanzie qualitative di quello che beviamo oggi in virtù dei rinnovati impianti di vigneto.
Una decina di anni fa entra in gioco la Gran Selezione. Una mossa rivelatasi azzeccatissima sotto il profilo del marketing, della comunicazione e, in sostanza, dei riscontri commerciali. Però, se ci fermiamo al senso delle parole, Gran Selezione induce a immaginare un vino dove confluiscono le migliori uve di un’azienda, ovviamente nei limiti delle percentuali di uvaggio stabilite dal disciplinare della docg. È comprensibile quindi che Isole e Olena, producendo da decenni tre grandi vini rispettivamente a base di Sangiovese (Cepparello), di Cabernet Sauvignon e Syrah (Collezione De Marchi), abbia deciso di realizzare una Gran Selezione dove, è quasi ovvio, ci piazza tanto Sangiovese ma anche quel che serve di Cabernet e Syrah per quadrare il cerchio. Il meglio del meglio. Giusto?
Come detto, il tentativo riesce perfettamente, ma nel frattempo il disciplinare viene modificato, forse sull’onda del vento favorevole all’autoctono, per cui il Cabernet e il Syrah non possono più entrare nella Gran Selezione che a sua volta è la sola tipologia ad aver diritto a far parte delle famose UGA e le UGA ripudiano sdegnosamente i vitigni alloctoni, gli stessi che non molti anni fa si fecero entrare a vele spiegate nel blend dei Chianti Classico.
Verrebbe da dire che questo è un mondo di pazzi.
Però, prendendo con il giusto distacco la questione, potrei anche concludere che cambiano i tempi, i costumi, i gusti e le abitudini, figuriamoci se non possono cambiare anche gli uvaggi permessi dal disciplinare di una denominazione, quale essa sia. Credo però che, con la stessa disponibilità e apertura nei confronti delle mutate esigenze, abbia allora poco senso stabilire per tutti i consorziati di qualsiasi denominazione in quale contenitore affinare il vino e per quanto tempo. Oggi verifichiamo andamenti stagionali sempre più imprevedibili che richiederebbero la possibilità di adattare la gestione del vigneto, la vinificazione e il tipo di affinamento alle caratteristiche dell’annata. A Bordeaux, nella “patria” delle barriques, ci sono aziende che non usano più il legno per affinare il vino e qui da noi continuiamo a imporlo come regola praticamente intoccabile per un minimo (e sottolineo minimo) di 12, 18, addirittura 24 mesi a seconda della tipologia.
Quale è il motivo che ha ispirato queste scelte così rigide? È ancora attuale? È davvero funzionale al raggiungimento di una qualità superiore? E nel caso è giusto che la qualità di un vino non sia frutto delle libere scelte del produttore medesimo?
Potrei continuare con altri cento interrogativi ma dubito di poter ricevere risposte convincenti e razionali. 
Probabilmente mi sentirei rispondere che ormai sono scelte che fanno parte della tradizione e toccare la tradizione non porta neanche bene soprattutto se c’è la convinzione che raccontare le solite storielle faccia veramente vendere il vino.

© 2016 ErGentili - build proudly by Stuwebmakers and Wordpress
contact: info@ernestogentili.
Privacy Policy