Scendo in cantina e pesco due vecchie, non ancora vecchissime, annate, la 1989 e la 1990, di Mouton Rothschild. Due millesimi di altissima reputazione per i vini bordolesi, di quelli che mettono d’accordo la riva destra con la sinistra, ma considerati dalla critica dell’epoca non proprio leggendari per Mouton. Sentite cosa scriveva a suo tempo a proposito dell’annata 1990 Robert Parker Jr:
“The 1990, also impressive from barrel, is a disappointment from the bottle. ….. What a shame!”.
Botta di traduttore ed ecco:
Il 1990, anch’esso impressionante dalla botte, è una delusione dalla bottiglia. Sebbene meno evoluto del 1989, è eccessivamente boisé, con un odore simile a quello del Jack Daniel’s e della botte di whisky. È di medio corpo, un po’ vuoto, e francamente imbarazzante quando lo si assaggia accanto a vini del calibro di Latour e Margaux. L’ho assaggiato dalla bottiglia 3 volte con impressioni identiche. Che peccato!
Parker consigliava poi di consumarlo tra il 1999 e il 2010, non oltre. Ho aperto la 1990 nel maggio 2023 e effettivamente è durata pochissimo, nel senso che ce la siamo (in tre) scolata avidamente. Certamente non ha mostrato una struttura monstre, la trama tannica è sottile e il grado alcolico si ferma a 12,5, e sarà che ero preparato al peggio, sarà che la mia cantina non climatizzata (ma di giusta umidità) fa miracoli, sarà che (porca miseria potevo pensarci prima..) non avevo in comparazione Latour e Margaux, ma vorrei provare più spesso questo genere di delusioni: un vino finissimo, dotato di una freschezza irresistibile con intensi profumi di menta, caffè, rose appassite e spezie che restavano a lungo sospesi nell’aria. Avercene..

Mi è sembrato quindi il caso di fare il punto su Mouton Rothschild e sottolineo il punto, in quanto non voglio certo ripercorrere la storia della Tenuta dalle sue origini ma mi piace soffermarmi su alcune curiosità che certamente chi frequenta Bordeaux sa a memoria ma delle quali non tutti sono a conoscenza.
Partiamo intanto dal nome “Mouton”. Credo che molti, io per primo, pensano che stia per montone o ariete e tutte le immagini dello Château che ritraggono un montone o, quanto meno, la sua testa, sembrano confermarlo. In realtà pare che il nome originario provenga dai termini motton o mothe che significano piccola collina, monticello, in corrispondenza dell’altopiano dove risiedono in gran parte i vigneti (84 ettari) della Tenuta dei Rothschild.
L’altra curiosità, probabilmente ben più conosciuta, è invece legata alla classificazione del vino che nel 1855 non fu inserito, come evidentemente si attendeva, tra i premiers crus ma fu classificato come deuxième. A parte l’inserimento del 1856 di Cantemerle, l’unico cambiamento alla gerarchia ufficiale dei crus del Médoc ha riguardato proprio la promozione al primo livello di Mouton nel 1973, esattamente 50 anni fa. Un passaggio significativo condensato nei motti che apparivano sulle etichette. Prima del 1973 si poteva leggere la frase: premier ne puis, second ne daigne, mouton suis. Con l’uscita dell’annata 1973 il motto è stato così modificato: premier je suis, second je fus, Mouton ne change. Non mi pare sia necessario tradurre.
Sul piano strettamente degustativo debbo dire che ho sempre attribuito a Mouton una personalità originale e diversa da qualsiasi altro Grand Vin del Médoc, ma c’è stato un periodo in cui, soprattutto negli assaggi en primeur, questo carattere risaltava anche per una presenza aromatica del rovere più marcata di altri con note di cacao e torrefazione in forte evidenza e in aggiunta a quel singolare mix esotico dove un fiume di spezie orientali si fondeva al ribes e alle amarene. Confrontato, lo ha fatto Parker e allora provo a farlo anch’io, con il distacco austero di Latour, la millimetrica armonia di Margaux o la finezza di Lafite, c’è poco da fare, Mouton appariva sempre quello che ammiccava maggiormente al cosiddetto gusto internazionale. Era un’impressione che affiorava soprattutto negli assaggi dei Primeurs per svanire quando la ricchezza, il senso di opulenza e la personalità inconfondibile trasmessa dal vino finivano per essere dominanti.
Nelle annate più recenti Mouton ha mantenuto l’originalità del suo carattere e il suo classico tatto vellutato ma anche reso meno appariscente la presenza del rovere, assumendo, in misura lieve ma sensibile, un contegno, un portamento, un’impronta stilistica ancora più autorevole.
Jean Emmanuel Danjoy, capo winemaker e direttore delle proprietà Rothschild, ne è evidentemente autore e responsabile e alla mia consueta domanda sui paradossi dell’annata 2022, condivide l’opinione diffusa che attribuisce i meriti alle caratteristiche del terroir (ghiaia, ghiaia e ancora ghiaia) e all’età dei vigneti – a Mouton sono ancora presenti alcuni ceppi addirittura secolari di Cabernet Sauvignon – dai quali derivano vini dalla sbalorditiva maturità e complessità tannica. In questo caso la sorpresa e il mistero sono accentuati dal fatto di trovarsi di fronte un vino che presenta un tenore alcolico superiore ai 14 gradi combinato con un pH di 3,89! Ti attendi quindi un impatto potente, largo, pieno, con un finale robustamente tannico, caldo e boisé e ti trovi un rosso sì ricco e intenso, ma anche morbido e melodioso che ribalta qualsiasi precedente congettura e mostra un finale profumato e interminabile dalla freschezza quasi dissetante. Monsieur Danjoy sottolinea appunto che proprio la presenza di tannini di assoluta integrità e freschezza assume un ruolo parzialmente sostitutivo dell’acidità, consentendo al vino di avere un effetto di contrasto che allunga e distende il finale. Così è, in effetti; il come e il perché non riesco del tutto a spiegarmelo ma lasciamo che resti intorno quel tocco di mistero che in fondo non guasta.
Quello che è certo è che l’ultimo arrivato nella ristrettissima élite dei premier cru, ultimo non lo è mai stato davvero.
Le note di degustazione dell’annata 2022 sono consultabili
qui, nello spazio riservato agli abbonati.