Non dico niente di nuovo, ribadisco anzi un concetto che ho espresso più volte e sintetizzo così: la sensibilità e l’intelligenza di un produttore non sono meno importanti del valore innato di un territorio ovvero senza un territorio vocato non si può fare vino ma quanto esso possa essere buono dipende essenzialmente dalle scelte delle persone che lo realizzano.
Lo spunto per tale affermazione me lo ha fornito l’assaggio dei vini di Tolaini, cantina attiva da un quarto di secolo a Castelnuovo Berardenga. Non ho difficoltà ad ammettere che non sono mai stato entusiasta della produzione proposta fino a pochi anni fa. Vini certamente poco criticabili sul piano tecnico ma anche poco comunicativi e portatori di uno stile vago, convenzionale, tendenzialmente internazionale, con il Sangiovese relegato inizialmente a un ruolo da comprimario, come raramente capita di osservare in Chianti Classico. Certamente nel corso degli anni non sono mancate alcune interpretazioni azzeccate e bottiglie di pregio ma, in rapporto al notevole impegno (non solo in termini di investimenti ma anche di passione) profuso dalla proprietà, sono state sporadiche e mai del tutto convincenti su tutta la linea.
D’altro canto è pur vero che il passaggio a una maturità stilistica compiuta richiede tempo, è frutto di una somma di esperienze che portano attraverso vari passaggi a individuare il percorso giusto e non è mai precisamente replicabile da una realtà all’altra. Ecco quindi che oggi Lia Tolaini Banville, dopo aver affiancato per anni il compianto Pier Luigi Tolaini, padre e fondatore dell’azienda, è riuscita, con il supporto fondamentale dello staff tecnico interno diretto dall’enologo Francesco Rosi, ad aprire e consolidare un tracciato che punta a valorizzare gli aspetti di naturalezza e territorialità dei vini rispettando la ricerca dell’equilibrio: una frase che assomiglia a uno slogan già sentito ma che tradotta in concreto significa evitare i protocolli rigidi, le surmaturazioni, l’uso eccessivo di rovere nuovo e di metodi estrattivi, tanto per sottolineare alcuni aspetti. Nello specifico oggi si preferisce calibrare gli interventi con misura, in funzione della tipologia e delle caratteristiche dell’annata, puntando in certi casi a macerazioni anche molto lunghe ma limitando i rimontaggi e abolendo o quasi la pratica del délestage, facendo minor uso di legni piccoli in favore di contenitori gradualmente più ampi e in buona sostanza monitorando l’evoluzione con assaggi sistematici. I vini hanno così iniziato ad assumere una forma più proporzionata e decifrabile, sono più bilanciati ed espressivi, il Sangiovese è tornato al centro delle attenzioni ma l’eccellente potenziale evidenziato anche dalle uve bordolesi – cabernet sauvignon, franc e merlot – non è stato certamente disperso.
Il resoconto degli assaggi è consultabile qui, in area abbonati, ma posso anticipare che le maggiori sorprese arrivano dal Vallenuova 2021 (il miglior Chianti Classico “annata” mai realizzato da Tolaini) e dal Legit 2020 che giustifica – anzi Legit..tima – l’utilizzo del Cabernet Sauvignon in zona Berardenga.