TENDENZE 1: i disciplinari indisciplinati e altre storie

Appena dopo aver pubblicato (qui) le relative recensioni nella parte riservata agli abbonati, anticipo per tutti i lettori che uno dei vini, o meglio, il vino che più di qualsiasi altro ha sinora lasciato il segno, anche in termini di giudizio numerico, è un Chianti Classico. Per la precisione una Gran Selezione. Annata 2016. L’azienda è Isole e Olena. Potrei dire enfaticamente l’ultimo capolavoro di Paolo De Marchi nell’azienda di Barberino Val d’Elsa: il resto del mondo è tuttavia ancora a sua disposizione per altre performance simili e noi ci speriamo.
Un vino fantastico che vive un curioso paradosso in quanto oggi non potrebbe uscire sul mercato come Gran Selezione perché nell’uvaggio, oltre al Sangiovese, c’è un 10% sia di Cabernet Sauvignon sia di Syrah e il disciplinare di produzione nel frattempo è stato modificato e non prevede più uve cosiddette alloctone. Anche se presenti nel territorio da mezzo secolo o quasi.
Ora, io non faccio il paladino né del Chianti Classico, né di Isole e Olena, né del Cabernet, né di nessuno in particolare. Cerco solo di difendere il diritto del libero consumatore alla massima qualità possibile, al di là delle mode, delle fasulle e inconsistenti ideologie del momento, in breve del marketing da strapazzo; tutte voci che all’unisono oggi dicono, ad esempio, che il mercato premia i monovitigni, soprattutto se autoctoni. Il termine autoctono, in particolare, sembra essere vincente: vitigni autoctoni vinificati con lieviti (ovviamente) autoctoni, magari in contenitori autoctoni (vedi orci di terracotta), da vignaioli autoctoni e via dicendo. L’effetto è amplificato se al termine autoctono aggiungiamo “naturale”. Ho letto recentemente un fondo del Corriere della Sera, autorevolmente firmato da Alessandro Trocino, che sottolineava che i vini naturali sono realizzati con lieviti autoctoni e non con quelli selezionati che, a detta delle fonti citate dall’autore dell’articolo, “modificano colore e sapore dei vini”. Peccato che più di un’azienda “convenzionale”, ben lontana quindi dall’immagine fantasiosamente idilliaca del vino naturale, abbia sempre vinificato con lieviti autoctoni. Probabilmente non era a conoscenza che i lieviti selezionati hanno il (magico) potere di modificare non solo il colore ma anche il sapore dei vini…

Ma torniamo a Isole e Olena e all’accennato paradosso. Quarant’anni fa il solito disciplinare non permetteva di produrre Chianti Classico solo con Sangiovese (però iniziava ad aprirsi alle uve internazionali) e se volevi farlo eri costretto a proporlo come vino da tavola e solo successivamente come vino a Indicazione Geografica Tipica. Isole e Olena uscì sul mercato con il Cepparello, sangiovese in purezza, come Fontodi propose il Flaccianello, Fèlsina il Fontalloro, San Giusto a Rentennano il Percarlo e, ancora prima, Montevertine il Pergole Torte e via dicendo. Certamente questi sono gli esempi più virtuosi ma è vero che gran parte del Sangiovese presente in passato, non solo in Chianti Classico ma in tutta la Toscana, non dava le garanzie qualitative di quello che beviamo oggi in virtù dei rinnovati impianti di vigneto.
Una decina di anni fa entra in gioco la Gran Selezione. Una mossa rivelatasi azzeccatissima sotto il profilo del marketing, della comunicazione e, in sostanza, dei riscontri commerciali. Però, se ci fermiamo al senso delle parole, Gran Selezione induce a immaginare un vino dove confluiscono le migliori uve di un’azienda, ovviamente nei limiti delle percentuali di uvaggio stabilite dal disciplinare della docg. È comprensibile quindi che Isole e Olena, producendo da decenni tre grandi vini rispettivamente a base di Sangiovese (Cepparello), di Cabernet Sauvignon e Syrah (Collezione De Marchi), abbia deciso di realizzare una Gran Selezione dove, è quasi ovvio, ci piazza tanto Sangiovese ma anche quel che serve di Cabernet e Syrah per quadrare il cerchio. Il meglio del meglio. Giusto?
Come detto, il tentativo riesce perfettamente, ma nel frattempo il disciplinare viene modificato, forse sull’onda del vento favorevole all’autoctono, per cui il Cabernet e il Syrah non possono più entrare nella Gran Selezione che a sua volta è la sola tipologia ad aver diritto a far parte delle famose UGA e le UGA ripudiano sdegnosamente i vitigni alloctoni, gli stessi che non molti anni fa si fecero entrare a vele spiegate nel blend dei Chianti Classico.
Verrebbe da dire che questo è un mondo di pazzi.
Però, prendendo con il giusto distacco la questione, potrei anche concludere che cambiano i tempi, i costumi, i gusti e le abitudini, figuriamoci se non possono cambiare anche gli uvaggi permessi dal disciplinare di una denominazione, quale essa sia. Credo però che, con la stessa disponibilità e apertura nei confronti delle mutate esigenze, abbia allora poco senso stabilire per tutti i consorziati di qualsiasi denominazione in quale contenitore affinare il vino e per quanto tempo. Oggi verifichiamo andamenti stagionali sempre più imprevedibili che richiederebbero la possibilità di adattare la gestione del vigneto, la vinificazione e il tipo di affinamento alle caratteristiche dell’annata. A Bordeaux, nella “patria” delle barriques, ci sono aziende che non usano più il legno per affinare il vino e qui da noi continuiamo a imporlo come regola praticamente intoccabile per un minimo (e sottolineo minimo) di 12, 18, addirittura 24 mesi a seconda della tipologia.
Quale è il motivo che ha ispirato queste scelte così rigide? È ancora attuale? È davvero funzionale al raggiungimento di una qualità superiore? E nel caso è giusto che la qualità di un vino non sia frutto delle libere scelte del produttore medesimo?
Potrei continuare con altri cento interrogativi ma dubito di poter ricevere risposte convincenti e razionali. 
Probabilmente mi sentirei rispondere che ormai sono scelte che fanno parte della tradizione e toccare la tradizione non porta neanche bene soprattutto se c’è la convinzione che raccontare le solite storielle faccia veramente vendere il vino.

AGGIORNAMENTI ASSAGGI CHIANTI CLASSICO

Come avevo già accennato qui, sto continuando a inserire recensioni aggiornate dei Chianti Classico suddivisi per annata. All’interno di ogni Report sono compresi i vini dell’annata indicata senza limitazione di tipologie, per cui, esemplificando, nel Report relativo ai Chianti Classico 2019 troverete anche le Riserve e le Gran Selezioni.
Tanto per stimolare la curiosità per il momento segnalo, tra le Riserve 2019, una versione riuscitissima di Badia a Coltibuono e del Seretina di Monterotondo, mentre tra le Gran Selezioni si sono distinte con sicurezza – continuando la citazione in ordine alfabetico di azienda – Effe55 di Capraia, Solatìo del Castello d’Albola, Poggiarso del Castello di Meleto e A Sofia dell’azienda Terreno.
Ma gli aggiornamenti continuano.

Chi vuol saperne di più e leggere quindi descrizioni e punteggi, ovviamente non ha che da abbonarsi.

ANTEPRIME TOSCANE 2023, Chianti Classico varie annate

La carrellata conclusiva di varie annate e tipologie del Chianti Classico conferma l’ottimo stato di salute dei vini della denominazione e, soprattutto, la sensazione di un territorio attraversato da una positiva vitalità. Sul piano stilistico convivono interpretazioni diverse come del resto sono diversi i territori e la nascita delle UGA è in fondo la dimostrazione pratica dell’esigenza di sottolineare queste distinzioni: la diversità è nella natura intrinseca di ogni vino.

Quel che unisce invece numerosi vini di quest’ultima rassegna è la qualità particolarmente elevata. Segnalo, e mi limito soltanto ai riscontri più eclatanti, tra le Riserve 2019 una magnifica versione de La Selvanella delle Fattorie Melini, de Le Vigne di Istine, del Seretina di Monterotondo, della Riserva di Val delle Corti e di quella di Querciabella (già recensita peraltro lo scorso anno). Tra le Gran Selezioni 2019 risaltano le prove del San Lorenzo del Castello di Ama e di A Sofia di Terreno, mentre con l’annata 2018 spicca un monumentale Vigneto San Marcellino di Rocca di Montegrossi.

Il dettaglio completo è, come sempre, disponibile in zona abbonati

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SELEZIONE 2022/23: FONTERUTOLI/MARCHESI MAZZEI

Lo scorso mese di giugno sono stato invitato a una insolita piccola verticale di 5 annate del Siepi, il ben conosciuto rosso ottenuto da un blend paritetico di Sangiovese e Merlot, dei Marchesi Mazzei. Ho definito la verticale “insolita” in quanto incentrata solo sulle ultime uscite – dal 2016 al 2020 – e perché svoltasi nel corso di un pranzo; sufficiente comunque a ricavare un’impressione d’insieme abbastanza precisa sugli orizzonti stilistici del vino e sulle caratteristiche dei singoli millesimi. Ho un ricordo molto positivo del Siepi ai suoi esordi (1992) e complessivamente di quello prodotto negli anni novanta, mentre l’idea che mi è rimasta delle bottiglie della prima decade degli anni 2000 – con l’eccezione di poche annate – è di un vino di alta precisione tecnica ma dallo stile convenzionale, molto concentrato, molto boisé, più associabile al Merlot che al Sangiovese, forse accondiscendente alle presunte esigenze del mercato di quel periodo.
Ma, ripeto, sono sensazioni più emotive che tecniche. Le annate provate in questa occasione hanno invece dato prova di una vitalità e di un senso di caratterizzazione decisamente più accentuato, sempre con l’obiettivo di raggiungere l’equilibrio ottimale. La proprietà afferma di non aver modificato né uvaggio né metodi di vinificazione e affinamento e che il miglioramento riscontrato nei vini è da imputare sostanzialmente alla crescita, in termini di età e acclimatazione, dei vigneti. In effetti il Sangiovese presente oggi è ben diverso da quello di vent’anni fa e fa sentire la sua “voce” con maggiore autorevolezza che in passato regalando al vino tensione, dinamismo e, in breve, maggior senso di identità.
L’assaggio delle cinque annate rispecchia con fedeltà le caratteristiche dei singoli millesimi. In breve: la bottiglia meno brillante è risultata essere la 2018 – vegetale e alcolica al tempo stesso -, mentre la 2017 nel mostrare il segno di un tannino rigido dà anche una certa prova di carattere, la 2020 “sente” maggiormente la presenza del Merlot e possiede il tatto levigato e i profumi balsamici di un vino bordolese; la 2016 conferma i pronostici che le assegnavano un ruolo da primattrice e rappresenta una delle versioni più felici del Siepi.
Per quanto riguarda la (strepitosa) annata 2019 le note sono disponibili qui in zona abbonati, unitamente agli appunti relativi agli altri 8 vini recensiti, tra i quali segnalo le brillanti prove dei tre Chianti Classico Gran Selezione 2019 (Badiòla, Castello di Fonterutoli e Vicoregio 36)

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