SOGNO DI FINE ESTATE

Il tema è consunto e abusato, lo so, ma non posso fare a meno di parlarne visto che spesso e volentieri si dà per scontato che tutti sappiano che le bottiglie – stesso vino e stessa annata – sono praticamente quasi sempre diverse tra loro a causa della “confezione”: un termine che sintetizza i problemi derivanti non solo dal tappo ma anche dalla forma e dalla struttura della bottiglia medesima.
Il classico sentore di tappo è un difetto ormai marginalizzato e ridotto a pochissimi casi ma aver sostanzialmente risolto questo punto debole non attenua la preoccupazione di chi produce e di chi compra vino. La coperta è corta, per qualche sentore di tappo in meno sono aumentati in misura assai più consistente altri difetti derivanti comunque da cessioni di sostanze contaminanti presenti nel sughero. Tannini ruvidi, aggressivi e sensazioni di asciugato sono presenti in tanti, troppi vini ormai e innescano talvolta affermazioni incaute che addebitano al rovere o alla gioventù del vino tali problematiche: “si al momento il tannino si fa sentire ma con il tempo vedrai che si ammorbidisce..”. Con il tempo sarà sempre peggio.
Ma ancora più subdolo è il ruolo dell’ossigeno che penetra nelle bottiglie, spesso a causa dei difetti del sughero, senza escludere quelli di fabbricazione delle bottiglie. Piccole frazioni di ossigeno che non provocano l’immediato decadimento di un vino, specialmente se ben strutturato, ma una indubbia contaminazione che tende a dare secchezza ai tannini e alterare i profumi, che appaiono così un po’ evoluti. Ma, soprattutto, con il passare del tempo accentuano le differenze tra una bottiglia e l’altra e azzeccare quella giusta al momento giusto costituisce una specie di lotteria. “Speriamo bene” è il pensiero che ricorre con maggiore frequenza al momento in cui si stappa una bottiglia importante e datata in una cena tra amici. Ovviamente gli effetti negativi e distorcenti si verificano anche in occasioni di assaggi professionali, con valutazioni che possono essere penalizzanti senza tuttavia arrivare a far sorgere il dubbio nella maggioranza dei degustatori sulla perfetta integrità della bottiglia testata.

Mi chiedo quindi se sia ammissibile nel 2022, con il controllo praticamente assoluto (e costoso) di ogni fase produttiva, dalla nascita dei germogli all’imbottigliamento, doversi affidare alla buona sorte sperando che il tappo (o il vetro) non ci tradiscano?
No, non è concepibile e dirò di più: è necessario schierarsi e non mi interessa che si utilizzino sistemi alternativi e certamente più affidabili come il tappo a vite per le bottiglie più semplici, di basso costo e consumo rapido, in quanto il sughero, nelle varie forme e varietà, va ancora benissimo per tali vini. Il problema vero e concreto è sui vini ambiziosi, quelli dal costo elevato che dovrebbero durare a lungo, perché è con queste tipologie che si verificano i casi dubbi più frequenti. Non voglio fare l’elenco delle etichette prestigiose contaminate che mi sono capitate nel tempo ma nessun vino, da Bordeaux alla Borgogna, dalle Langhe a Montalcino, ne è mai stato – e mai lo sarà – esente. E, fuori dai denti, in base ai più elementari principi economici, più il vino costa più t’incazzi se non risponde alle attese per colpa del tappo.
E allora vorrei il tappo a vite sui vini “TOP”, non su bianchi, rosati e rossi d’annata. In fondo così si salvaguarderebbe la produzione del sughero e anche l’intelligenza dei consumatori.
È l’ora di smetterla di appellarsi al magico rito della stappatura, di usare i sommelier solo per fargli annusare i tappi (possono fare ben altro) o di affermare che il pubblico non è ancora pronto per questo cambiamento. Basta, per favore!
Oltretutto il tappo a vite può far tornare di moda le caraffe da decantazione. Avete una clientela particolarmente snob nel vostro ristorante? Storcerebbe la bocca se non vedesse lo svolgimento del suddetto “rito”? Aprite con un giro di polso la bottiglia da 300 (o 3000) euro, versatela in un’elegante caraffa, magari griffata, e il gioco è fatto, l’immagine salvata, il vino beneficia dell’ossigenazione e un nuovo rito inizia.

Ma d’un tratto mi sono svegliato; ho pensato che era il caso di bermi un bel caffè ma – chissà perché – mi sembrava sapesse di tappo.

Verticale del Riesling Hérzu di ETTORE GERMANO

Non voglio tirar fuori la solita pappardella della longevità e quanto siano sottovalutati alcuni vini bianchi italici, come ho più volte ribadito. Lo stesso Hérzu di Ettore Germano, ha inizialmente subìto dalla maggioranza degli assaggiatori (ma so’ ragazzi..) questo trattamento diffidente, per poi essere riconosciuto universalmente come vino di indubbio valore.
Ogni tanto affiora tuttavia qualcuno che afferma “d’accordo è buono, ma i Riesling della Mosella sono ben altra cosa”. Giusta obiezione: infatti l’Hérzu è un Riesling non prodotto in Mosella ma in Piemonte e sull’etichetta riporta l’indicazione Langhe..
D’altro canto mi rendo conto che sia quasi inevitabile fare questi raffronti, lo stesso succede ogni volta che ci troviamo davanti un Pinot Nero e c’è chi non può fare a meno di sparare: “non dico che non sia buono ma, insomma, non lega neanche le scarpe a un normale Village”.
Se sposto, però, il confronto tra vini dello stesso territorio e non dello stesso vitigno, forse le idee si schiariscono e le differenze emergono. Ve lo immaginate il migliore Pinot Nero prodotto in Langa Versus i Barolo o i Barbaresco? Oppure un altrettanto ambizioso Pinot Noir prodotto in Chianti Classico contro i migliori rossi di quel territorio? Con tutto il rispetto per chi li produce, finirebbero a pezzi.
Se invece prendo un vino come l’Hérzu e lo confronto non solo con i langaroli ma con i migliori bianchi d’Italia, non dico sia il migliore, non esageriamo, ma la sua “porca” figura continua a farla.
Quindi, spero di essere stato sufficientemente chiaro, l’Hérzu è un eccellente bianco italiano, come Riesling è invece “solo” ottimo e risente, come è giusto che sia, della matrice territoriale e non solo di quella varietale.
La degustazione è stata condotta in due fasi diverse. La prima, nel 2017, ha preso in esame le annate 2010, 2013 e 2015; la seconda, effettuata a fine estate 2020 con la preziosa collaborazione di Claudio Corrieri, ha analizzato i millesimi 2008, 2009, 2013 e 2015.
Dopo il 2011 Sergio Germano, figlio di Ettore e titolare dell’azienda di famiglia, ha iniziato a utilizzare una chiusura con il tappo a vite (Stelvin) e non più con il tradizionale sughero: solo per il coraggio di questa scelta meriterebbe di essere portato in trionfo (si fa per dire eh, Sergio non è proprio un peso piuma).
Sta di fatto che se i vini fossero vistosamente peggiorati saltava l’alibi di dare la colpa al solito, povero, inaffidabile tappo; ma, guarda caso, la valutazione del 2013 a distanza di anni è stata identica e il commento molto simile, mentre l’Hérzu 2015, visto che il primo assaggio si era svolto a pochissimi mesi dall’imbottigliamento, ha registrato una crescita prevedibile e coerente, a dimostrazione che il vino compie comunque una sua evoluzione anche usando il discusso tappo a vite e mantiene la sua integrità senza dare spazio agli alibi.

Seguono, per gli abbonati, le note di degustazione.

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