TERRE BIANCHE, il valore della diversità

In qualsiasi degustazione di qualsiasi tipologia si presentano vini con stati evolutivi diversi, da quelli prontissimi e addirittura al limite dell’ossidazione a quelli più lenti a svelarsi che necessitano dei tempi giusti per essere valutati e apprezzati pienamente. Certe condizioni possono dipendere certamente dalle caratteristiche dell’annata e dei suoli come pure dalle scelte strategiche e “filosofiche” del produttore. Emblematico in questo senso è stato l’assaggio, anzi il riassaggio dei tre Rossese di Dolceacqua dell’azienda Terre Bianche.

Le note di degustazione, aggiornate nel Report relativo ai Rossese (clicca qui), sono esplicite nel dettaglio ma l’aspetto più interessante da rilevare è in realtà offerto dalla comparazione tra i due vini di punta dell’azienda di Filippo Rondelli: il Bricco Arcagna e il Terrabianca, entrambi, a conforto dell’attendibilità del confronto, della stessa annata 2021. Riepilogando, stessa tipologia e vitigno, stesso produttore, stessa annata, ma terreni e luoghi diversi e due vini conseguentemente e decisamente diversi tra loro.

Il Bricco Arcagna si è mostrato subito più aperto nei profumi e già ben equilibrato su un palato dai toni decadenti, leggermente evoluto e scarico nel colore quanto attraente e articolato nelle sfumature. Scuro nel colore, introverso e restìo a svelarsi è il Terrabianca, che in compenso mostra una resistenza impressionante all’ossidazione mantenendo a lungo (che significa per giorni) la freschezza e l’integrità del frutto e del tessuto tannico.

Non nego che questi ultimi siano gli aspetti che apprezzo maggiormente ma in realtà non è così importante stabilire quale dei due vini sia il migliore in quanto il dato più significativo è osservare che il produttore/vinificatore non ha imposto a entrambi uno stile univoco, modellandoli in funzione di esso, ma ha assecondato il carattere e la vocazione di ognuno dei due cru, dando vita, con le scelte operate in vigna e in cantina, a due vini che nell’annata 2021 sono apparsi ancora più originali e diversi tra loro.

Una diversità legata all’espressione del territorio e alla sua valorizzazione, non provocata quindi da metodi operativi strambalati dei quali ho ampiamente accennato qui, nel precedente articolo.

TENDENZE 3. Snobbiamo gli snob

Senza questa serie di doverose premesse quello che vado ad affermare potrebbe essere equivocato, per cui:

comprendo e condivido che a lungo andare ci possa essere chi si è stufato di tutta una serie di vini troppo precisi, troppo prevedibili, troppo controllati, in una parola troppo conformisti . Vini che, intendiamoci, continuano ad avere notevole successo di pubblico, un pubblico, appunto, conformista che ha imparato il nome di quattro vini quattro e quelli chiede sistematicamente ogni volta che va in un ristorante.

Comprendo e condivido che si possa mettere in dubbio l’idea portata avanti dai “piccoli chimici”, alfieri dell’ortodossia – enologica e degustativa – per i quali i vini non sarebbero altro che un’arida somma di analisi di laboratorio, per cui accettano di buon grado vini imbottiti di legno, di chips, di aromi artificiali e di altre aggiunte estranee all’uva, ignorano la presenza di “anima” e personalità, ma fanno gli intransigenti se l’acidità volatile è uno 0,05 più alta del normale. Peggio per loro, aggiungerei, si sono così giocati malamente la possibilità di godere di tanti grandi vini (fatti da altri perché per loro sarà impossibile), visto che ad accompagnare spesso e volentieri tante etichette importanti e prestigiose è proprio la presenza più marcata di volatile, che dà semplicemente più enfasi ed espressività ai profumi senza causare nessun danno nel tempo.

Comprendo e condivido conseguentemente che seguire procedure dettate da protocolli rigidi e ripetitivi in qualsiasi ambiente, vitigno e territorio sia una pratica funesta da combattere duramente.

Comprendo e condivido che valori come personalità, originalità stilistica, distinzione abbiano assunto un peso sempre maggiore nel determinare il grado di attrattiva di un vino e, conseguentemente, il giudizio qualitativo d’insieme, anche a scapito di un po’ di correttezza formale.

Comprendo e condivido un atteggiamento privo di pregiudizi, anche nei confronti di quelli che sono considerati difetti del vino come (mi limito a citare i più comuni al giorno d’oggi) volatili, brettanomyces e ossidazioni assortite. Entro una certa soglia – è una questione di misura e non di principio – sono accettabili senza doversi scandalizzare.

Tuttavia non comprendo e non condivido per niente l’atteggiamento snob che oggi attraversa trasversalmente appassionati, operatori di mercato, giornalisti, critici vari nonché winemakers dell’ultim’ora che, spinti da motivazioni diverse (curiosità intellettuale, voglia di smarcarsi sempre e comunque, contagiati dalla sindrome di Cristoforo Colombo…), ritengono che decenni di studi e pratiche quotidiane (sistematicamente aggiornate) basate su test scientifici che hanno creato i fondamenti della moderna enologia è come non ci fossero mai state e, in ogni caso, considerate praticamente inutili, in quanto in loro prevale la convinzione che il vino si ottenga solo con processi naturali e la fisica, la chimica, la matematica e, men che meno, la microbiologia avrebbero poco a che farci. Per la frangia più estrema dei “naturisti” non importa se un vino è assai pungente e presenta odori animaleschi o se il finale è malamente asciugato o dolciastro come una mela cotta. Ciò che conta è che sia diverso dalla massa dei vini omologati.

Conseguentemente gli stessi suggeriscono ai produttori di liberarsi dai vincoli, di allentare i controlli, di lasciarsi un po’ andare, con l’obiettivo virtuoso di esaltare la diversità, l’imprevedibilità, la sorpresa. Obiettivi, che, se lasciamo davvero campo libero al “brett”, all’ossidazione e al festival di lieviti degenerati e batteri che ne conseguirà, verranno raggiunti con matematica certezza: non ci sarà una bottiglia uguale all’altra dello stesso vino e della stessa annata, un bel po’ della produzione sarà da buttare ma alla fine, a distanza di anni, resterà pure qualche esemplare unico e irripetibile che darà gioia e soddisfazione ai nostri amici snob.

Ma allora io, che ho sempre pensato che il carattere, la distinzione, la diversità dei vini fossero legati al territorio, al vitigno, alla cura dei dettagli, alla sensibilità umana (al terroir in una parola), sono evidentemente un ingenuo.

O no?

LE TENDENZE 2. Affrancateci dal Cabernet Franc.

Negli anni novanta e a cavallo dei duemila, il Merlot ha conquistato sempre più spazio nei vigneti europei e anche del nuovo mondo. Dalle nostre parti, sulla spinta dei successi di mercato di alcune etichette, la tendenza a piantarlo, forse senza neanche verificare se davvero clima e terreni fossero proprio congeniali al vitigno bordolese, ha assunto ritmi frenetici. Le variazioni climatiche in atto in questo secolo hanno dato, in più di un caso, il colpo di grazia e attualmente non si può che constatare che una parte non irrilevante di quei vigneti abbia fatto una brutta fine, essendo stati estirpati o sovrainnestati con altre uve, dimostrando che a suo tempo la scelta era stata superficiale e frettolosa.

Ora, dato che piantare un vigneto e poi spiantarlo non è semplice come cambiare un maglione o un paio di scarpe della misura sbagliata, ogni anno prendo nota con una certa diffidenza dell’esordio dell’ennesima etichetta di Cabernet Franc, rigorosamente in purezza perché, come ho già avuto modo di segnalare, il monovitigno va “forte”. Solo a Bolgheri, ma la tendenza è generalizzata, se ne contano – tra doc e igt – più di una ventina.

Pur sperando che la lezione del Merlot sia servita e che tali scelte siano state dettate da attente valutazioni sulle caratteristiche di suoli, sottosuoli e microclimi, temo che anche in questo caso la molla dell’imitazione di qualche successo di mercato abbia creato un ulteriore fenomeno modaiolo. Certamente si dirà che il Cabernet Franc non è il Merlot, che è molto più adatto ai nostri climi e terreni, da noi matura bene, non è altrettanto precoce e via dicendo.
Tuttavia io continuo ad affidarmi ai responsi del “bicchiere” e i risultati che osservo non giustificano affatto tale proliferazione. Il che non significa che non ci siano C. F. buoni e anche ottimi. Ma sono una minoranza.

Allora, oltre alla prova del bicchiere, cerco di dare peso alle testimonianze “storiche” e a un briciolo di letteratura sull’argomento.
Le origini del Cabernet Franc si perdono nel tempo ma è opinione comune che il vitigno sia arrivato a Bordeaux e successivamente nella Loira dalla Spagna, anzi dai Paesi Baschi per essere precisi. Dall’incrocio del Franc con il Sauvignon Blanc sembra sia derivato il Cabernet Sauvignon, mentre dalla combinazione con la Magdeleine Noire des Charentes (vitigno scomparso o quasi) è nato il Merlot. Il Cabernet Franc è pertanto il progenitore dei principali vitigni bordolesi ma a Bordeaux – dove d’altro canto domina la cultura dell’assemblaggio – nessuno in concreto lo produce in purezza. Lo troviamo, ma in misura decisamente minoritaria, sulla riva sinistra, dove la prevalenza di ghiaia e sabbia è ben più congeniale al Cab. Sauvignon che predilige terreni caldi; ha un ruolo invece da protagonista sulla riva destra, soprattutto a Saint Emilion, grazie alla presenza di suoli calcarei (finezza e personalità) e anche argillosi (struttura e vigore) nei quali il Franc trova la freschezza ideale, come gli succede in quelle denominazioni della Loira (essenzialmente Saumur-Champigny e Chinon) che lo vedono protagonista assoluto e dove al calcare e all’argilla superficiale si aggiunge il tufo, che fa da spugna trattenendo le risorse idriche indispensabili per la corretta maturazione delle uve. In sintesi, visto che la stessa combinazione di terreni, magari scambiando il ruolo di argilla e calcare, è amata anche dai Merlot, si potrebbe forzare il concetto affermando che il Franc ha più aspetti in comune con il Merlot che con il Cabernet Sauvignon. E in effetti anche in tempo di vendemmia lo vediamo raccogliere poco dopo il Merlot ma sicuramente prima del Cab. Sauvignon. Non è proprio precoce ma neanche tardivo. Non teme quindi le stagioni calde (meglio se non torride) ma a patto che siano associate a terreni assolutamente freschi.
In conclusione, considerando che il clima della Loira, mitigato quanto si vuole dalla presenza del fiume (molto vicino ai vigneti peraltro), è un po’ diverso da Bolgheri e dalla Toscana in genere e che di tutto questo calcare poroso (a stella marina o astéries come dicono in Francia) in certe zone non ve ne è proprio traccia, sarei un po’ più cauto nel fare troppo affidamento sul Cabernet Franc. Soprattutto in purezza.
Ma moda e mercato sono una combinazione diabolica alla quale è evidentemente difficile resistere.

SELEZIONE VINI 2023: ROSSESE di DOLCEACQUA o DOLCEACQUA DOC

Il Rossese di Dolceacqua o Dolceacqua che dir si voglia, ha conosciuto da alcuni anni una fase di riscoperta e di rivalutazione ben meritata. Agile, profumato, dalla beva facile e istintiva senza scadere in elementari semplificazioni, originale nel carattere e ben riconoscibile, rappresenta e ha rappresentato per molti il contraltare dei vini poderosi e muscolari che hanno inondato per molto, troppo, tempo le nostre tavole e gli scaffali di enoteche e ristoranti. Qualcuno lo ha assimilato al Pinot Nero, definendolo come il Borgogna della Riviera di Ponente, tanto per enfatizzarne le innate doti finezza ma, anche senza ricorrere a paralleli così azzardati, è doveroso attribuire al Rossese un ruolo non più secondario nel panorama enologico italiano.

Cambia il ruolo e cambiano le aspettative che, alla prova del bicchiere, stavolta sono state un po’ disattese. Certamente la degustazione effettuata è stata decisamente parziale (solo una ventina o poco più i vini provati), utile quindi per ottenere qualche indicazione e non certo per arrivare a giudizi più completi, ma l’impressione che ho ricavato, salvo alcuni casi, non è stata particolarmente lusinghiera, anche rispetto ad altri test effettuati nel passato. Con molta probabilità le annate in gioco (2021 e 2022 in larga prevalenza) non hanno favorito l’espressione dei caratteri più apprezzabili e distintivi del vitigno; ho così registrato da un lato maturità incomplete, sottolineate da strutture evanescenti, e dall’altro l’affermazione dello stile opposto, con la ricerca di concentrazioni inutilmente forzate, finendo per presentare, in entrambe le soluzioni, vini distanti dall’immagine di eleganza e snellezza che il Rossese si è costruito in questi anni.

Un’immagine, tuttavia, che viene invece fedelmente restituita dalla brillante risposta ricevuta dagli unici due vini dell’annata 2020 presenti in assaggio, rafforzando l’idea che l’incidenza delle annate non sia stata casuale.

 
Le note di degustazione sono consultabili qui, nella parte riservata agli abbonati.
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