CHȂTEAU MOUTON ROTHSCHILD: L’ETICHETTA DELL’ANNATA 2021

La nuova etichetta (https://vimeo.com/890231576/0c981624a6?share=copy) di Ch. Mouton Rothschild, illustrata da un’opera originale dell’artista giapponese Chiharu Shiota, è finalmente pronta e sarà presente sulle bottiglie dell’annata 2021 che uscirà il prossimo anno.

L’annata 2021 non è stata considerata generalmente grande a Bordeaux ma è sempre meglio diffidare delle generalizzazioni. Personalmente ho trovato ottimi motivi per apprezzarla e, al di là delle impressioni complessive sul millesimo, debbo dire che, basandomi sugli assaggi en primeur dello scorso anno, Mouton 2021 è una bottiglia davvero fantastica per armonia ed eleganza, in assoluto una delle migliori dell’annata.

In vista delle festività natalizie auguro a tutti (me compreso) di avere la fortuna e la possibilità di berla almeno una volta nei prossimi anni.

LE TENDENZE 2. Affrancateci dal Cabernet Franc.

Negli anni novanta e a cavallo dei duemila, il Merlot ha conquistato sempre più spazio nei vigneti europei e anche del nuovo mondo. Dalle nostre parti, sulla spinta dei successi di mercato di alcune etichette, la tendenza a piantarlo, forse senza neanche verificare se davvero clima e terreni fossero proprio congeniali al vitigno bordolese, ha assunto ritmi frenetici. Le variazioni climatiche in atto in questo secolo hanno dato, in più di un caso, il colpo di grazia e attualmente non si può che constatare che una parte non irrilevante di quei vigneti abbia fatto una brutta fine, essendo stati estirpati o sovrainnestati con altre uve, dimostrando che a suo tempo la scelta era stata superficiale e frettolosa.

Ora, dato che piantare un vigneto e poi spiantarlo non è semplice come cambiare un maglione o un paio di scarpe della misura sbagliata, ogni anno prendo nota con una certa diffidenza dell’esordio dell’ennesima etichetta di Cabernet Franc, rigorosamente in purezza perché, come ho già avuto modo di segnalare, il monovitigno va “forte”. Solo a Bolgheri, ma la tendenza è generalizzata, se ne contano – tra doc e igt – più di una ventina.

Pur sperando che la lezione del Merlot sia servita e che tali scelte siano state dettate da attente valutazioni sulle caratteristiche di suoli, sottosuoli e microclimi, temo che anche in questo caso la molla dell’imitazione di qualche successo di mercato abbia creato un ulteriore fenomeno modaiolo. Certamente si dirà che il Cabernet Franc non è il Merlot, che è molto più adatto ai nostri climi e terreni, da noi matura bene, non è altrettanto precoce e via dicendo.
Tuttavia io continuo ad affidarmi ai responsi del “bicchiere” e i risultati che osservo non giustificano affatto tale proliferazione. Il che non significa che non ci siano C. F. buoni e anche ottimi. Ma sono una minoranza.

Allora, oltre alla prova del bicchiere, cerco di dare peso alle testimonianze “storiche” e a un briciolo di letteratura sull’argomento.
Le origini del Cabernet Franc si perdono nel tempo ma è opinione comune che il vitigno sia arrivato a Bordeaux e successivamente nella Loira dalla Spagna, anzi dai Paesi Baschi per essere precisi. Dall’incrocio del Franc con il Sauvignon Blanc sembra sia derivato il Cabernet Sauvignon, mentre dalla combinazione con la Magdeleine Noire des Charentes (vitigno scomparso o quasi) è nato il Merlot. Il Cabernet Franc è pertanto il progenitore dei principali vitigni bordolesi ma a Bordeaux – dove d’altro canto domina la cultura dell’assemblaggio – nessuno in concreto lo produce in purezza. Lo troviamo, ma in misura decisamente minoritaria, sulla riva sinistra, dove la prevalenza di ghiaia e sabbia è ben più congeniale al Cab. Sauvignon che predilige terreni caldi; ha un ruolo invece da protagonista sulla riva destra, soprattutto a Saint Emilion, grazie alla presenza di suoli calcarei (finezza e personalità) e anche argillosi (struttura e vigore) nei quali il Franc trova la freschezza ideale, come gli succede in quelle denominazioni della Loira (essenzialmente Saumur-Champigny e Chinon) che lo vedono protagonista assoluto e dove al calcare e all’argilla superficiale si aggiunge il tufo, che fa da spugna trattenendo le risorse idriche indispensabili per la corretta maturazione delle uve. In sintesi, visto che la stessa combinazione di terreni, magari scambiando il ruolo di argilla e calcare, è amata anche dai Merlot, si potrebbe forzare il concetto affermando che il Franc ha più aspetti in comune con il Merlot che con il Cabernet Sauvignon. E in effetti anche in tempo di vendemmia lo vediamo raccogliere poco dopo il Merlot ma sicuramente prima del Cab. Sauvignon. Non è proprio precoce ma neanche tardivo. Non teme quindi le stagioni calde (meglio se non torride) ma a patto che siano associate a terreni assolutamente freschi.
In conclusione, considerando che il clima della Loira, mitigato quanto si vuole dalla presenza del fiume (molto vicino ai vigneti peraltro), è un po’ diverso da Bolgheri e dalla Toscana in genere e che di tutto questo calcare poroso (a stella marina o astéries come dicono in Francia) in certe zone non ve ne è proprio traccia, sarei un po’ più cauto nel fare troppo affidamento sul Cabernet Franc. Soprattutto in purezza.
Ma moda e mercato sono una combinazione diabolica alla quale è evidentemente difficile resistere.

Château Haut-Bages Libéral, qualcosa si muove a Bordeaux

Quando faccio il punto su ogni nuova annata bordolese non posso fare a meno di avere l’impressione, certamente superficiale, di osservare una situazione pressoché cristallizzata dove, alla resa dei conti, i vini migliori sono sempre i soliti.
In realtà, in una sorta di Panta Rei, tutto sembra fermo e tutto si muove. I movimenti, in alto e in basso, spesso sono appena percettibili: “quest’anno ho trovato un pizzico di tannino in eccesso in Ch. Margaux” oppure “Cos d’Estournel è un tocco più profondo della precedente annata” e così via: punteggiature, una virgola qui, una virgola là, ma in sostanza i valori sono sempre quelli. Ma, soprattutto nei millesimi più recenti, le variazioni e gli spostamenti, prevalentemente in alto, sono più consistenti e, per chi è costantemente assetato di novità, anche stimolanti e incoraggianti.
Ecco allora che, a sostegno di questa suggestione debbo sottolineare l’ascesa sensibile e costante del Grand Vin di Haut-Bages Libéral, un Pauillac cinquième cru classé che confina direttamente con Château Latour, dal quale è diviso solo dalla Route de la Rivière, una piccola strada che scende fino al palus che affianca la Gironda. Un’altra parte dei vigneti sono poco distanti e adiacenti a quelli di Pichon Baron che, a sua volta intendiamoci, non è proprio l’ultimo arrivato. Il terzo appezzamento è situato invece sull’altopiano di Bages a fianco di – scusate se è poco – Château Grand-Puy-Lacoste.
La storia dello Château è molto interessante e, purtroppo, anche tragica in alcuni aspetti, ma per il momento mi limito ad accennare che Libéral è il nome della famiglia che lo ha posseduto sin dal 1700 e che Bages è un toponimo situato nel comune di Pauillac che ritroviamo collegato anche ad altre Tenute (Lynch-Bages, Croizet-Bages e altre ancora). Al momento attuale fa parte, come Château Ferrière (altro vino in forte ascesa) e di Château La Gurgue a Margaux, delle proprietà di Claire Villars che, in sintonia con il consorte Gonzague Lurton (proprietario di Durfort Vivens, altro Château in netto crescendo), segue  con determinazione i dettami della pratica biodinamica.

Come accennato, Haut-Bages Libéral da una parte confina direttamente con Château Latour e non è un dettaglio evidentemente: stesso microclima, stessa distanza dalle rive della Gironda, composizione dei suoli – almeno sul lato confinante – molto simile se non identica, per cui è difficile abbandonare il dubbio che abbia ben altro potenziale da sviluppare. Il concetto, evidentemente non cambia per la parte in contatto con i vigneti di Pichon Baron e Grand-Puy-Lacoste. In effetti le vicende storiche ed economiche delle varie proprietà che si sono succedute nel tempo hanno spesso un peso non secondario sull’affermazione e sulla popolarità dei vini di Bordeaux e anche Haut-Bages, che è pur sempre un cru classé, nel passato ha vissuto qualche periodo problematico che gli ha impedito di avere un maggiore successo e forse solo oggi, nei tempi attuali, sta ricevendo le cure e le attenzioni adeguate.
L’azienda è, appunto, in regime biodinamico da alcuni anni ma debbo sinceramente notare che non ho elementi specifici e tanto meno scientifici per assegnare i meriti della svolta positiva a tale scelta. Tuttavia non posso fare a meno di considerare che spesso cambiamenti di questo tipo generano un atteggiamento assai più convinto e partecipativo da parte del produttore o di chi eventualmente lo rappresenta.

In questo caso si respira un entusiasmo che diventa coinvolgente per chi si avvicina a Haut-Bages e del quale sembra risentirne positivamente anche la vitalità e lo stato di salute del vigneto stesso! Dall’esterno le immagini prevalenti che riguardano Bordeaux inquadrano Château dalle strutture sontuose e luccicanti; al contrario Claire Villars preferisce camminare in mezzo ai filari delle vigne e, se non fosse per il vento fresco che arriva dalla Gironda, ti sembrerebbe davvero di essere a contatto con un vigneron borgognone o langarolo.

In effetti, anche basandomi sulle mie occasionali esplorazioni dove ho sempre trovato un vino più potente che fine, a Haut-Bages non ha mai fatto difetto una naturale energia, attinta evidentemente da un ambiente naturale particolarmente favorevole; non è stato tuttavia altrettanto facile riuscire sino ad ora a incanalarla in forme più raffinate per far assumere al vino una personalità più definita ed elegante.
La piccola verticale (2018, 2019 e 2020), che Claire Villars mi ha gentilmente proposto e concesso, ha invece delineato con una certa chiarezza il percorso intrapreso e il profilo del vino assume per me oggi un’identità assai più precisa. Un vino intenso ma anche agile e carezzevole, “sospeso” sul palato e non aggrappato alla bocca, dinamico e non statico. Certamente non siamo ancora al punto di arrivo, il tracciato intrapreso troverà nel tempo una maggior compiutezza ma l’assaggio è stato piuttosto illuminante e chiarificatore.
Le tre annate provate nell’occasione (quattro se aggiungiamo la 2022) hanno una valenza qualitativa – punto più punto meno – molto simile ma le loro caratteristiche sono decisamente diverse, dopo che nel passato H. B. L. sembrava inseguire modelli stilistici convenzionali dove la concentrazione era il motivo trainante che omologava l’uno con l’altro i vini di un’intera regione. Alla fine emerge la sensazione di un vino che “vive” ogni annata per intero, senza contaminazioni o camuffamenti. Un vino più aperto, disinibito, privo di complessi ma non di complessità, se vogliamo usare un gioco di parole. Un vino più autentico, in sostanza.
Merito della biodinamica? Può darsi, è probabile, ma non ho elementi certi per affermarlo.
Merito dell’attenzione, della sensibilità, dell’entusiasmo delle persone che lo creano? In questo caso penso proprio di si. Gli ingredienti imprescindibili in fondo sono sempre quelli: vitigni e persone giuste nel posto giusto, una “ricetta” che in sintesi si traduce con terroir.

Le note di degustazione sono disponibili quiper gli abbonati.

BORDEAUX PRIMEURS 2022

È stata davvero una grande annata? Questa è la domanda dominante alla presentazione di ogni nuovo millesimo a Bordeaux e della 2022, già preannunciata come tale, si può dire che non abbia deluso le aspettative. Certo, bisognerebbe entrare nel merito, non tanto di ogni singolo vino prodotto, ma di cosa intendiamo per grande annata. Se pensiamo di comprendere nella definizione una qualità diffusamente molto elevata su tutti i vini prodotti, saremmo un po’ fuori strada: non è stata per tutti una grande annata, per cui, se prossimamente leggerete 2022 su qualche etichetta bordolese, non illudetevi di avere sistematicamente a che fare con un grande vino.
Se invece collegate il concetto alla presenza più alta del consueto di grandi e grandissimi vini, allora siamo assai più vicini alla realtà anche se continuiamo ad essere vincolati a una forma deformata di comunicazione che esige una sintesi semplificatrice quando la realtà è assai più complessa e articolata.

Per tentare di comprendere meglio l’annata 2022 è opportuno sciorinare qualche cifra. I dati pubblicati ad esempio da Château Latour (nella foto) segnalano che in un anno, da ottobre 2021 a settembre 2022, si sono registrati – record negativo assoluto – soltanto 615 millimetri di pioggia, buona parte dei quali a dicembre 2021. Un andamento eccezionalmente secco con poche piogge nel periodo invernale, qualcosa in più ad aprile, niente o quasi in un maggio già molto caloroso e un’impennata più consistente (l’unica) concentrata in pochi giorni a metà giugno; tanto sole cocente e niente acqua a luglio, una pioggia salvatrice a metà agosto, sempre con temperature molto elevate, mentre a settembre la situazione è stata simile con notti però più fresche. Nel resto della regione i rilievi cambiano di poco anche se in alcune zone sono risultati addirittura più estremi.
Cosa attendersi pertanto da uno sviluppo meteo dalle inclinazioni fortemente meridionali in termini di sviluppo degustativo? Vini potenti, concentrati, ricchi di frutto, se consideriamo che le rese produttive sono state contenute e distribuite da un minimo di 20 sino a 40 quintali (di vino) per ettaro, ma anche presenza di profumi surmaturi, carenza di freschezza e slancio sul palato, con tannini crudi e immaturi, come già capitato in annate simili.

La sorpresa, anzi la meraviglia e, se vogliamo scendere su altri piani descrittivi, il mistero dell’annata è costituito proprio dal fatto che dal punto di vista aromatico i vini esprimono un ventaglio ampio, dal floreale al balsamico e allo speziato con tutti i generi di frutti rossi e neri a completare il quadro; da quello gustativo non ho potuto che restare incantato dalla freschezza finale e da una qualità tannica straordinariamente fine e matura. Un miracolo? Può essere ma pensando razionalmente è stato buon motivo di interesse comprendere quali meccanismi hanno innescato queste sorprendenti reazioni. Da dove è arrivata la freschezza? E la maturazione dei tannini come si spiega? In ogni visita effettuata ho chiesto e confrontato i vari pareri e, pur senza giungere ad una spiegazione unica ed esauriente del “fenomeno”, ho trovato le maggiori condivisioni sugli aspetti e le ipotesi che vado a enunciare.

In primo luogo va tenuto conto che il millesimo precedente ha avuto caratteristiche quasi opposte, con un giugno piovosissimo che ha dato il via a una serie di infezioni (vedi soprattutto peronospora) nei vigneti e un settembre che li ha annaffiati robustamente in tre o quattro occasioni; nel mezzo però luglio e agosto secchi, arresti di maturazione e vendemmia decisamente ritardata con gradi alcolici inferiori mediamente ai 13 gradi. Non si può tuttavia attribuire alla relativa piovosità del 2021 la costituzione di una “riserva” idrica che abbia sostenuto i vigneti anche in questa annata.
Gran parte dei pareri convergono invece sulla capacità delle viti ad adattarsi alle variazioni climatiche dato che le estati calde e soprattutto secche sono iniziate con continuità dal 2015 e hanno trovato l’apice nel 2022 che, oltre agli eccessi di calore (non di rado si sono toccati i 40 gradi) di luglio e agosto, ha sommato un inverno e una primavera poco piovosi creando una tendenza negli apparati radicali delle piante a cercare l’acqua già nel mese di maggio. Per non farla troppo lunga si è verificata una situazione che ha favorito i terreni profondi con fondi argillosi in grado di trattenere l’acqua e gli impianti di vigneto meno giovani, dai 30 ai 50 anni e oltre, con strutture radicali diffuse verticalmente nelle parti più umide del sottosuolo. Ne consegue che gli impianti più giovani con radici superficiali e/o terreni meno profondi non hanno raggiunto gli stessi risultati.

L’insieme dei dati sarà poi materia di studio e approfondimento per agronomi e tecnici che proveranno a unire i vari pezzi del puzzle, dall’importanza dei porta innesti, alla fioritura precoce, alla teoria che individua un passaggio decisivo della sintesi polifenolica nei casi in cui le piante vanno in stress idrico prima dell’allegagione e dopo l’invaiatura, all’importanza di una buona escursione termica (calore diurno e freschezza notturna) nella formazione e nella non dispersione dei profumi e non solo…Insomma la voglia di capire i mille perché è tanta ma non essendo un tecnico ma solo un giornalista posso pensare che il miracoloso mistero dell’annata 2022 sia condensato in un insieme di fattori convergenti tra loro e uniti indubbiamente dall’intuizione e dalla sensibilità di chi ha poi realizzato i vini.
Sul piano strettamente degustativo debbo invece ricordare che lo spostamento in avanti di 20-30 giorni della presentazione dei Primeurs ha fornito (come già lo scorso anno) un supplemento di tempo utilissimo ai vini per mostrarsi in forma migliore e inoltre il fattore che ha permesso, soprattutto quest’anno, di rendere più apprezzabile anche ai palati meno avvezzi un vino in evoluzione è certamente costituito dai Ph alti (acidità poco avvertibile e maggior senso di morbidezza), caratteristica che non troviamo certamente nei nostri Nebbiolo e Sangiovese, tanto per citare due vitigni conosciuti dai più.

La scarsissima umidità per contro ha permesso di avere uve naturalmente sane, con drastica riduzione di trattamenti fitosanitari, acini piccoli e concentratissimi in grado di sviluppare gradi alcolici importanti ma non totalmente fuori registro (mediamente sui 14-14,5) dato che il processo di maturazione ha avuto ritmi lenti visto che le piante per fronteggiare lo stress si sono messe sulla “difensiva” e hanno, come dire, centellinato le forze per sopravvivere.
Il reportage e il racconto degli assaggi effettuati proseguirà con i prossimi articoli.

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