BORDEAUX PRIMEURS 2022

È stata davvero una grande annata? Questa è la domanda dominante alla presentazione di ogni nuovo millesimo a Bordeaux e della 2022, già preannunciata come tale, si può dire che non abbia deluso le aspettative. Certo, bisognerebbe entrare nel merito, non tanto di ogni singolo vino prodotto, ma di cosa intendiamo per grande annata. Se pensiamo di comprendere nella definizione una qualità diffusamente molto elevata su tutti i vini prodotti, saremmo un po’ fuori strada: non è stata per tutti una grande annata, per cui, se prossimamente leggerete 2022 su qualche etichetta bordolese, non illudetevi di avere sistematicamente a che fare con un grande vino.
Se invece collegate il concetto alla presenza più alta del consueto di grandi e grandissimi vini, allora siamo assai più vicini alla realtà anche se continuiamo ad essere vincolati a una forma deformata di comunicazione che esige una sintesi semplificatrice quando la realtà è assai più complessa e articolata.

Per tentare di comprendere meglio l’annata 2022 è opportuno sciorinare qualche cifra. I dati pubblicati ad esempio da Château Latour (nella foto) segnalano che in un anno, da ottobre 2021 a settembre 2022, si sono registrati – record negativo assoluto – soltanto 615 millimetri di pioggia, buona parte dei quali a dicembre 2021. Un andamento eccezionalmente secco con poche piogge nel periodo invernale, qualcosa in più ad aprile, niente o quasi in un maggio già molto caloroso e un’impennata più consistente (l’unica) concentrata in pochi giorni a metà giugno; tanto sole cocente e niente acqua a luglio, una pioggia salvatrice a metà agosto, sempre con temperature molto elevate, mentre a settembre la situazione è stata simile con notti però più fresche. Nel resto della regione i rilievi cambiano di poco anche se in alcune zone sono risultati addirittura più estremi.
Cosa attendersi pertanto da uno sviluppo meteo dalle inclinazioni fortemente meridionali in termini di sviluppo degustativo? Vini potenti, concentrati, ricchi di frutto, se consideriamo che le rese produttive sono state contenute e distribuite da un minimo di 20 sino a 40 quintali (di vino) per ettaro, ma anche presenza di profumi surmaturi, carenza di freschezza e slancio sul palato, con tannini crudi e immaturi, come già capitato in annate simili.

La sorpresa, anzi la meraviglia e, se vogliamo scendere su altri piani descrittivi, il mistero dell’annata è costituito proprio dal fatto che dal punto di vista aromatico i vini esprimono un ventaglio ampio, dal floreale al balsamico e allo speziato con tutti i generi di frutti rossi e neri a completare il quadro; da quello gustativo non ho potuto che restare incantato dalla freschezza finale e da una qualità tannica straordinariamente fine e matura. Un miracolo? Può essere ma pensando razionalmente è stato buon motivo di interesse comprendere quali meccanismi hanno innescato queste sorprendenti reazioni. Da dove è arrivata la freschezza? E la maturazione dei tannini come si spiega? In ogni visita effettuata ho chiesto e confrontato i vari pareri e, pur senza giungere ad una spiegazione unica ed esauriente del “fenomeno”, ho trovato le maggiori condivisioni sugli aspetti e le ipotesi che vado a enunciare.

In primo luogo va tenuto conto che il millesimo precedente ha avuto caratteristiche quasi opposte, con un giugno piovosissimo che ha dato il via a una serie di infezioni (vedi soprattutto peronospora) nei vigneti e un settembre che li ha annaffiati robustamente in tre o quattro occasioni; nel mezzo però luglio e agosto secchi, arresti di maturazione e vendemmia decisamente ritardata con gradi alcolici inferiori mediamente ai 13 gradi. Non si può tuttavia attribuire alla relativa piovosità del 2021 la costituzione di una “riserva” idrica che abbia sostenuto i vigneti anche in questa annata.
Gran parte dei pareri convergono invece sulla capacità delle viti ad adattarsi alle variazioni climatiche dato che le estati calde e soprattutto secche sono iniziate con continuità dal 2015 e hanno trovato l’apice nel 2022 che, oltre agli eccessi di calore (non di rado si sono toccati i 40 gradi) di luglio e agosto, ha sommato un inverno e una primavera poco piovosi creando una tendenza negli apparati radicali delle piante a cercare l’acqua già nel mese di maggio. Per non farla troppo lunga si è verificata una situazione che ha favorito i terreni profondi con fondi argillosi in grado di trattenere l’acqua e gli impianti di vigneto meno giovani, dai 30 ai 50 anni e oltre, con strutture radicali diffuse verticalmente nelle parti più umide del sottosuolo. Ne consegue che gli impianti più giovani con radici superficiali e/o terreni meno profondi non hanno raggiunto gli stessi risultati.

L’insieme dei dati sarà poi materia di studio e approfondimento per agronomi e tecnici che proveranno a unire i vari pezzi del puzzle, dall’importanza dei porta innesti, alla fioritura precoce, alla teoria che individua un passaggio decisivo della sintesi polifenolica nei casi in cui le piante vanno in stress idrico prima dell’allegagione e dopo l’invaiatura, all’importanza di una buona escursione termica (calore diurno e freschezza notturna) nella formazione e nella non dispersione dei profumi e non solo…Insomma la voglia di capire i mille perché è tanta ma non essendo un tecnico ma solo un giornalista posso pensare che il miracoloso mistero dell’annata 2022 sia condensato in un insieme di fattori convergenti tra loro e uniti indubbiamente dall’intuizione e dalla sensibilità di chi ha poi realizzato i vini.
Sul piano strettamente degustativo debbo invece ricordare che lo spostamento in avanti di 20-30 giorni della presentazione dei Primeurs ha fornito (come già lo scorso anno) un supplemento di tempo utilissimo ai vini per mostrarsi in forma migliore e inoltre il fattore che ha permesso, soprattutto quest’anno, di rendere più apprezzabile anche ai palati meno avvezzi un vino in evoluzione è certamente costituito dai Ph alti (acidità poco avvertibile e maggior senso di morbidezza), caratteristica che non troviamo certamente nei nostri Nebbiolo e Sangiovese, tanto per citare due vitigni conosciuti dai più.

La scarsissima umidità per contro ha permesso di avere uve naturalmente sane, con drastica riduzione di trattamenti fitosanitari, acini piccoli e concentratissimi in grado di sviluppare gradi alcolici importanti ma non totalmente fuori registro (mediamente sui 14-14,5) dato che il processo di maturazione ha avuto ritmi lenti visto che le piante per fronteggiare lo stress si sono messe sulla “difensiva” e hanno, come dire, centellinato le forze per sopravvivere.
Il reportage e il racconto degli assaggi effettuati proseguirà con i prossimi articoli.

La riscoperta dei cru

Per lungo tempo abbiamo ammirato e invidiato le denominazioni (appellations) francesi ispirate storicamente – l’ordine di tempo è il secolo – a un sistema classificatorio (crus classés) che specifica – a torto o a ragione – chi siano i migliori (territori, produttori o cru a seconda delle varie tipologie) modellando la famosa piramide qualitativa che chiarisce al mercato, al pubblico, ai produttori medesimi quali sono le basi di partenza e dà il giusto peso a chi è posizionato in alto. In confronto le nostre doc/docg sono sempre apparse come una forma indefinita, segnate dall’incapacità di fare scelte decise; una posizione incerta pagata con la fuga dalle denominazioni di alcuni tra i vini più importanti prodotti nel nostro paese.
Alla resa dei conti però il criterio si è rivelato sempre più congeniale a chi stava in cima alla piramide ma non a chi stava alla base. Poteva funzionare quando sul mercato mondiale, in assenza di comunicazione, Bordeaux e la Borgogna facevano il bello e il cattivo tempo, ma in un contesto di competizione globale, con offerta di vino da ogni parte del mondo e consumi più che dimezzati nelle zone di produzione, la base, soprattutto in area bordolese, ha finito con lo scendere sotto il livello minimo e la piramide ha assunto una forma sempre più stretta e appuntita. Alla fine del secolo scorso un premier cru i Bordeaux poteva costare 50 volte di più di un semplice vino “regionale”; oggi il rapporto è diventato di 500 a 1. Non a caso sembra che ben 10000 ettari di vigna delle zone meno pregiate saranno spiantati perché non più remunerativi.

Tuttavia anche nell’attualità il contagio del principio della classificazione non sembra attenuarsi a Bordeaux e, sorvolando per semplificazione sulle continue polemiche innescate dalla suddivisione tra cru di serie A e serie B a Saint-Emilion, un esempio evidente è fornito dalla ripartizione operata nel 2020 dalla categoria dei Crus Bourgeois del Médoc – tipologia che dal punto di vista gerarchico e commerciale è su un piano più basso rispetto ai crus classés – che coprono quasi un terzo dell’intera produzione della regione e attualmente sono 249 (più o meno la metà delle aziende che ne fanno richiesta), dei quali soltanto 14 sono classificati – con cadenza quinquennale – come “Exceptionnels” e 56 come “Superieurs”, attraverso vari criteri tra i quali ha un peso rilevante il giudizio di una ristretta commissione d’assaggio. A chi può servire questo tipo di gerarchia? Alle aziende più quotate? Forse, ma già da tempo sono premiate dal mercato. A quelle alla base? È probabile, non certo da escludere, soprattutto nel caso temessero di essere scartate dalla selezione, ma si tratterebbe di una scelta puramente difensiva. Ai consumatori? Può darsi, però ricordiamoci che non si può pretendere che chi compra e beve vino, già bombardato da una comunicazione assillante e contraddittoria, debba superare un corposo esame di enografia memorizzando una miriade di dettagli quando servirebbero solo semplicità e chiarezza. Non c’è dubbio che se il Syndicat dei Crus Bourgeois ha fatto queste scelte avrà avuto le sue buone ragioni ma ciò non significa automaticamente che costituiscano un modello da imitare e importare in zone con storie e strutture ben diverse, come le doc/docg italiane.

In Italia, appunto, la zona che presenta una suddivisione – ma non una classificazione – alla borgognona è, come ormai dovremmo sapere un po’ tutti, l’area delle Langhe, dove i cru hanno assunto la definizione ufficiale di Menzione Geografica Aggiuntiva (MGA), ma la loro origine è comunque legata strettamente alla storia del territorio. In era “moderna” insomma non si è inventato niente che già non c’era.
In Toscana la viticoltura non ha mai avuto un rapporto con nessuna delle idee di cru sopra accennate, come, tanto per chiarire, non ha mai seguito pratiche da monovitigno; anche in questo caso le ragioni sono storiche e legate essenzialmente alla struttura mezzadrile che è stata definitivamente abbandonata poco più di mezzo secolo fa.
Oggi però un po’ tutti esprimono la voglia e l’esigenza di assegnare più valore e senso di identità al territorio in cui operano. Da parte dei Consorzi di Tutela sono già state approvate o comunque sono in fase di studio avanzato modifiche ai disciplinari con l’inserimento di “sottozone” di varia estensione fino a comprendere, nel caso di doc/docg particolarmente estese come il Chianti Classico, gli interi territori comunali. Da parte dei singoli produttori sta invece diffondendosi la tendenza a individuare e segnalare nuovi cru, il numero delle etichette si arricchisce di toponimi e nomi di fantasia, talvolta preceduti dal termine “vigna” o “vigneto”, un po’ come succedeva in passato con i supertuscan. Nella sostanza si tratta di mosse che hanno prevalentemente motivazioni di marketing. Non c’è niente di male, per carità, ognuno è libero di seguire la strada che preferisce per valorizzare al meglio la propria produzione, soprattutto se il beneficio – ovvero una qualità più alta – finisce con estendersi a tutta la gamma e magari a tutta la tipologia. Al contrario debbo rilevare che non è raro notare come il peso sempre più rilevante dei cru vada a impoverire il resto della produzione, vale a dire la base, allargando la forbice delle gerarchie delle varie etichette all’interno di ogni cantina. Ed è un cane che si morde la coda dato che prenderebbe una forma sempre più affilata la solita piramide, slanciando la sua punta verso l’alto mentre scava sempre più in basso le sue fondamenta.

Mi pare quindi evidente che non esistano modelli perfetti nel sistema di gestione delle denominazioni che dal semplice controllo delle regole è passato a funzioni essenzialmente promozionali.
La frammentazione in sottozone è però una scelta coraggiosa, da favorire in quanto ha la funzione concreta di indicare più da vicino la collocazione geografica dei vigneti; un aspetto caratterizzante che è utile ai consumatori e stimolante per i produttori.
È coraggiosa, ribadisco, perché per essere davvero efficace deve porsi con chiarezza, semplicità, onestà e rispetto per l’acquirente, senza fare troppi calcoli di convenienza spicciola.
Al contrario si rischia, per mediare tra le diverse posizioni, di infarcire di lacci, lacciuoli e distinguo vari i disciplinari di produzione, che già oggi appaiono sin troppo articolati rispetto alle reali esigenze sia del pubblico dei consumatori che dei produttori medesimi.

Questione di etichetta

Ogni nuova annata in uscita di Château Mouton Rothschild desta curiosità e interesse non certo perché ci siano dubbi sulla qualità del vino (mai non meno che eccellente), quanto per scoprire l’etichetta che la prestigiosa maison di Pauillac dal 1945 rinnova ogni anno affidandosi alla creatività di un artista sempre diverso.
Il millesimo 2020, a breve disponibile sul mercato, è stato firmato dallo scozzese Peter Doig il cui nome si aggiunge alla lunga lista di artisti contemporanei che hanno contribuito alle etichette di Mouton.
In questa occasione da parte mia pubblico scupolosamente anche il link relativo al video che mi è pervenuto augurando a chi mi legge di avere la fortuna di poter assaggiare il prezioso liquido contenuto nella bottiglia e non di limitarsi ad ammirare la pur pregevole opera artistica riprodotta sull’etichetta.

Château Latour, la colombaia e altre curiosità

Confesso di essere stato convinto per anni che quella cupola che si vede in mezzo ai vigneti di Château Latour fosse proprio “La Torre” che dà il nome alla tenuta; ho scoperto successivamente che la vecchia torre e la relativa fortificazione sono state distrutte dai francesi alla fine della guerra dei cent’anni – si parla di più di cinque secoli fa – e la costruzione che vediamo oggi è solo una colombaia. Certamente una delle colombaie più maestose che conosca mentre in effetti, a pensarci bene, una torre tondeggiante e non molto alta è piuttosto anomala e, in quanto a torri, si può trovare qualcosa di più significativo senza doversi spostare troppo.
Però la colombaia, costruita agli inizi del 1600, è un po’ il simbolo di Latour, visto anche che lo Château, quasi nascosto dalla vegetazione, non è dei più vistosi del Médoc e la struttura aziendale, cantine e locali di accoglienza e degustazione sono assolutamente confortevoli e ben configurati ma anch’essi sono improntati alla sobrietà, all’efficienza e non sembra vogliano dare troppo nell’occhio con effetti scenici inadeguati allo stile rigoroso della maison.

Ma insomma, colombaia o torre, si tratta di una delle proprietà più antiche del Médoc tanto è vero che anche nel sito aziendale viene riportata la data del 1331 come “inizio attività” e i passaggi di mano di Latour costituiscono una vera ragnatela tanto sono numerosi gli intrecci che si sono susseguiti fino ai giorni nostri. Piuttosto curioso è invece il fatto che Latour abbia fatto parte per lungo tempo dei possedimenti della famiglia Segur – una delle più note e potenti di Bordeaux – unitamente a Château Lafite fino a tutto il 1700.
Dal 1993 fa parte del ricco portafoglio di attività di Francois Pinault, titolare del potente gruppo Kering che raggruppa una serie di marchi di larga fama della moda e del lusso .

In passato, un appuntamento a Latour richiedeva pazienza, volontà ferrea, estrema precisione nel rispettare gli orari stabiliti, oltre a una serie di referenze autorevoli. La contemporanea presenza di questi attributi e un tocco di fortuna consentiva, spesso ma non sempre, di riuscire a varcare, con un filo di apprensione, le soglie della proprietà. Non è che oggi si entra nello Château fischiettando: chi sei, cosa hai fatto, cosa fai e perché vuoi visitare Latour lo chiedono eccome, ma debbo dire che stavolta quell’aria un po’ rigida e militaresca che si respirava entrando nella sala degustazione si è disciolta e, forse per merito del contagioso entusiasmo della responsabile tecnica (Hélène Genin), il confronto sulla nuova annata è stato occasione di una piacevole e animata discussione sulle variazioni climatiche e soprattutto sulla scelta di abbracciare per oltre la metà del corpo vigneti (90 ettari circa), proprio nel nucleo storico de L’Enclos (dove resistono ceppi di vite con oltre un secolo di vita), le linee della biodinamica.
Per quanto riguarda l’assaggio del 2021 rimando i più esigenti alle note pubblicate di recente, tenendo presente che, fra i grandi rossi di Bordeaux, Latour si fa forte della sua storia secolare e teme meno di tutti il passare del tempo

 

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