Non ci sono più le mezze stagioni?

Nonostante che da più di una parte continuino ad arrivare comunicati trionfalistici è evidente che il mercato del vino rosso soffre di una crisi diffusa. Non è solo una questione di prezzi, è proprio un processo di riduzione dei consumi che può essere addebitato a molti motivi combinati tra loro. I fattori salutistico e dietetico hanno certamente il loro peso, ma, insomma, non si è scoperto oggi che nel vino ci sono calorie, senza contare che, se al posto di un bicchiere di rosso se ne bevono due di spumante o un cocktail, non è che le calorie diminuiscono. Direi quindi, come ho già avuto modo di affermare qui, che si tratta soprattutto di un cambiamento di costumi: non si beve più a tavola quotidianamente, giorno e sera, come un tempo. Ma anche le nuove abitudini non sono arrivate improvvisamente, da un momento all’altro, è da qualche decennio che progressivamente sono stati abbandonati i vecchi riti conviviali in famiglia. Ecco allora che uno dei principali imputati – avevo trattato anche di questo qui – è diventato l’eccessivo peso alcolico dei vini. Si è iniziato l’anno proponendo l’Amarone-light per arrivare a invitare a una riflessione sull’opportunità di dealcolizzare i vini. Certamente se ne può ragionare, anche se non credo che la strada ideale sia quella di snaturare i “grandi classici” dell’enologia ma di tenere conto, nel realizzarli, dell’importanza di raggiungere i giusti equilibri senza disperderne il carattere. Se il grado alcolico diminuisce naturalmente può essere positivo, ma siamo davvero convinti che sia questo il nocciolo della questione? Posso capire che il dubbio nasca con vini come l’Amarone che spesso superano i 15 gradi, ma come la mettiamo con il calo di vendite, anche più marcato, dei rossi di Bordeaux che generalmente non vanno oltre i 14°?

Mi viene quindi da pensare che il famigerato cambiamento climatico, unito alle scelte viticole adottate negli impianti di vigneto, non incida solo facendo alzare di un grado, o mezzo grado, l’alcolicità dei vini. L’aumento di calore e umidità ha un ruolo assai più incisivo su noi consumatori e sulle nostre abitudini. Siamo noi in realtà ad avere l’esigenza di bere più fresco e mangiare cibi più leggeri. Quante volte abbiamo sentito dire, e abbiamo detto, al punto che la frase ha assunto una connotazione ironica, “non ci sono più le mezze stagioni”? Negli ultimi anni, dopo l’estate, ci sono solo mezze stagioni; con la differenza sostanziale di avere più luce nei periodi dove vige l’ora legale. Certo, ho estremizzato il concetto, ma neanche più di tanto.

Se la tendenza è questa, è inevitabile che il consumo di vini rossi sia destinato a diminuire, anche se qualcuno obietterà che in realtà le etichette più prestigiose continuano a esaurirsi rapidamente sul mercato. In realtà anche il consumo dei grandi vini di Borgogna, Bordeaux e di tutti i territori più pregiati è in netta diminuzione; ma la vendita, per ora, regge il ritmo in quanto spesso si tratta di etichette oggetto di speculazione. Si vendono, ma non si bevono.

Non sta a me offrire soluzioni, e neanche ne sarei capace, ma debbo dire a tal proposito che il progetto di Julian Renaud – enologo, direttore e co-proprietario di Colline Albelle, a Riparbella, sulla costa toscana – probabilmente non è così folle come sembrava al suo, pur recente, esordio. Il suo è forse un uovo di Colombo un po’ più spiaccicato alla base ma ha una sua logica: volete vini più freschi e meno alcolici? Anticipate la vendemmia. Facile, no? Le obiezioni inevitabilmente si affollano e le domande si accavallano: e la maturità fenolica? E lo sviluppo aromatico? E i tannini, e l’acidità? E i tannini più l’acidità? Che razza di equilibrio, anzi squilibrio, viene fuori? Dubbi legittimi ma, al di là del fatto che i vini di Colline Albelle sono sorprendentemente bilanciati e piacevoli con un profilo volutamente verticale, è anche vero che molti dimenticano che non tutti i vini nascono per conservarsi all’infinito (che poi non è detto, in mancanza di riprove, che un metodo sia migliore di un altro) o per illudersi di diventare il “primo della classe”. Non si può fare solo Barolo, ci vuole anche un po’ di Dolcetto o di Grignolino, come pure puoi pensare alla Barbera superboisé di 15 gradi e passa, ma non dimenticarti di quella fruttata, un po’ acidula e beverina di 13°.

In conclusione, ma ovviamente l’argomento non si esaurisce qui, credo che in questa situazione, se vogliamo anche storica, non sia necessario mettere in discussione l’Amarone o il Barolo, ma l’idea di continuare a produrre anche i vini più semplici, quelli definiti “di base”, con strutture sovradimensionate. Un po’ come mettere a Stanlio i vestiti di Ollio. E il famoso detto (inventato per l’occasione) “fatene meno, fatelo meglio” ben si adatta al vino di domani.

Ma anche ad altro, non si vive di solo vino.

SELEZIONE VINI 2023: CASTELLO DEL TERRICCIO

La forte impronta balsamica che caratterizzava il Lupicaia nel passato si è un po’ attenuata ma il rosso di maggior prestigio del Castello del Terriccio non ha dimenticato, anche con l’annata 2018, di possedere un tatto vellutato e un’eleganza innata. Tratti caratteristici che lo hanno sempre distinto anche dagli altri vini della proprietà.

Le note di degustazione sono consultabili qui, in area abbonati.

INCONTRI RAVVICINATI: CAIAROSSA

Doverosa premessa: in questi “incontri” non racconterò vita, storia e miracoli del tema in oggetto, sia esso una singola azienda o un singolo vino; mi limiterò a sottolineare gli aspetti salienti emersi nell’occasione. Non assegnerò neanche punteggi ai vini in quanto il punteggio al vino ha senso solo in un contesto di comparazione allargato e preferibilmente alla cieca.
Il primo incontro, come le menti più acute avranno intuito, è dedicato a Caiarossa. Dato che le notizie sull’azienda sono facilmente ricavabili cliccando sul suo nome collegato al sito web io non sto a riportarle di nuovo. Mi limito solo a ricordare che cantina e vigneti, interamente condotti in “biodinamica”, sono situati a Riparbella, sulla costa toscana. Le vigne sono state progettate e impiantate in due momenti distinti: il nucleo originario è intorno alla cantina, quello successivo si trova in località Nocolino, tra Riparbella e Castellina Marittima.

Ho sempre seguito con attenzione e curiosità i vini di Caiarossa sin dai loro esordi, apprezzandone le naturali doti di personalità che hanno costantemente mostrato di possedere anche a scapito di qualche “incertezza” olfattiva; non capitavo però in azienda da qualche anno ed ho trovato uno staff tecnico giovane e assai determinato sugli obiettivi immediati da raggiungere per salire di livello, ovvero maggiore equilibrio d’insieme e nitidezza espressiva, puntando ad affrancarsi per quanto possibile da ingerenze alcoliche e tanniche indesiderate.  

Operazione non facile a realizzarsi, viste le caratteristiche di un territorio dove è più facile e naturale “esagerare” che contenersi, ma perseguita con tenacia, curando nei dettagli ogni particolare. Debbo dire che in poche aziende si avverte così nettamente l’attenzione scrupolosa assegnata al lavoro di vigna; la gestione della cantina, che non è certamente meno importante e curata, è indirizzata a valorizzare al massimo la materia prima e non a “sistemarne” magagne e difetti. Significativa è, ad esempio, la scelta di decidere – alla bordolese – il taglio definitivo del primo vino, il Caiarossa, all’inizio e non alla fine dell’affinamento, permettendogli così di evolvere in modo omogeneo. Come pure la selezione del rovere, le percentuali ridotte di legno nuovo, l’uso di cemento e botti grandi in funzione delle varie tipologie prodotte, vanno nella direzione di trovare la misura giusta con vini più pronti, freschi e bevibili da subito senza rinunciare al loro potenziale di longevità e carattere.

I dettagli dei vari assaggi sono, come sempre, disponibili qui in zona abbonati.

Degustazione verticale del Vermentino Filemone de LA FRALLUCA

Con due soli anni di ritardo rispetto al momento dell’assaggio, pubblico la recensione del Filemone, Vermentino prodotto a Suvereto da La Fralluca. Per qualche mese ho cercato vanamente quei fogli dove avevo scritto gli appunti, ma niente da fare, si erano nascosti – hanno fatto tutto da soli – tra le pagine di un librone pesantissimo pensando di non essere mai scovati ma, alla fine, la verità è venuta a galla. Ed è emerso anche il fatto che alla fine bisogna ammettere che computer e tablet a qualcosa servono. Tanto per avere un quadro più completo, ho aggiunto anche gli appunti – riportati sul Mac stavolta – di un’altra mini verticale effettuata nel 2017 e ho corredato il tutto con le preziose annotazioni sulle caratteristiche delle varie annate fornitemi scrupolosamente, all’epoca dell’assaggio di due anni fa, dai titolari dell’azienda.

Il report completo è consultabile in zona abbonati ma credo che sommariamente si possa arrivare ad alcune ovvie e inevitabili conclusioni:

– i vini bianchi in genere non godono in Italia di particolare considerazione sul piano della longevità anche se, con molta lentezza, c’è un certo ripensamento

– tra i vini bianchi, il Vermentino è una di quelle varietà che su questo piano riscuote ancora meno credito

– la costa toscana – tra maremme alte, basse e medie non ce n’è una che si salva – non è passata alla storia per la inesauribile freschezza dei suoi vini bianchi.

Al di là delle prove di “resistenza” ossidativa, nel Filemone si apprezza il senso di estrema nitidezza, aromatica e gustativa, che risalta in tutte le annate e in qualsiasi periodo di assaggio; emerge anche la presenza costante di un’acidità viva e di gradi alcolici contenuti che fanno ipotizzare scelte viticole, compresa l’individuazione del momento di raccolta, atte a preservare l’integrità del frutto e salvaguardare l’acidità, supportate coerentemente da tecniche di cantina che niente concedono all’ossidazione. Un ruolo non secondario nel caso del Filemone è tuttavia giocato dalla composizione del terreno, i cosiddetti “sassi dei Barbiconi”, che si è rivelato capace di trattenere quel minimo di riserva idrica traducibile automaticamente in un potenziale acido più alto e nello stesso tempo contenere lo sviluppo vegetativo in una misura congeniale ad un accumulo equilibrato di zuccheri nelle uve.

Come sono solito ripetere, la terra e l’essere umano sono i due cardini fondamentali (anche se propendo maggiormente per il secondo fattore) per ottenere buoni e magari grandi vini, in grado di superare gli ostacoli naturali e la consueta serie di pregiudizi che da sempre esiste nel mondo del vino: che gli scettici provino – se lo trovano – un Filemone 2010 e la smettano una buona volta di stupirsi di un vino bianco ancora più che buono dopo una decina di anni.

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