La riscoperta dei cru

Per lungo tempo abbiamo ammirato e invidiato le denominazioni (appellations) francesi ispirate storicamente – l’ordine di tempo è il secolo – a un sistema classificatorio (crus classés) che specifica – a torto o a ragione – chi siano i migliori (territori, produttori o cru a seconda delle varie tipologie) modellando la famosa piramide qualitativa che chiarisce al mercato, al pubblico, ai produttori medesimi quali sono le basi di partenza e dà il giusto peso a chi è posizionato in alto. In confronto le nostre doc/docg sono sempre apparse come una forma indefinita, segnate dall’incapacità di fare scelte decise; una posizione incerta pagata con la fuga dalle denominazioni di alcuni tra i vini più importanti prodotti nel nostro paese.
Alla resa dei conti però il criterio si è rivelato sempre più congeniale a chi stava in cima alla piramide ma non a chi stava alla base. Poteva funzionare quando sul mercato mondiale, in assenza di comunicazione, Bordeaux e la Borgogna facevano il bello e il cattivo tempo, ma in un contesto di competizione globale, con offerta di vino da ogni parte del mondo e consumi più che dimezzati nelle zone di produzione, la base, soprattutto in area bordolese, ha finito con lo scendere sotto il livello minimo e la piramide ha assunto una forma sempre più stretta e appuntita. Alla fine del secolo scorso un premier cru i Bordeaux poteva costare 50 volte di più di un semplice vino “regionale”; oggi il rapporto è diventato di 500 a 1. Non a caso sembra che ben 10000 ettari di vigna delle zone meno pregiate saranno spiantati perché non più remunerativi.

Tuttavia anche nell’attualità il contagio del principio della classificazione non sembra attenuarsi a Bordeaux e, sorvolando per semplificazione sulle continue polemiche innescate dalla suddivisione tra cru di serie A e serie B a Saint-Emilion, un esempio evidente è fornito dalla ripartizione operata nel 2020 dalla categoria dei Crus Bourgeois del Médoc – tipologia che dal punto di vista gerarchico e commerciale è su un piano più basso rispetto ai crus classés – che coprono quasi un terzo dell’intera produzione della regione e attualmente sono 249 (più o meno la metà delle aziende che ne fanno richiesta), dei quali soltanto 14 sono classificati – con cadenza quinquennale – come “Exceptionnels” e 56 come “Superieurs”, attraverso vari criteri tra i quali ha un peso rilevante il giudizio di una ristretta commissione d’assaggio. A chi può servire questo tipo di gerarchia? Alle aziende più quotate? Forse, ma già da tempo sono premiate dal mercato. A quelle alla base? È probabile, non certo da escludere, soprattutto nel caso temessero di essere scartate dalla selezione, ma si tratterebbe di una scelta puramente difensiva. Ai consumatori? Può darsi, però ricordiamoci che non si può pretendere che chi compra e beve vino, già bombardato da una comunicazione assillante e contraddittoria, debba superare un corposo esame di enografia memorizzando una miriade di dettagli quando servirebbero solo semplicità e chiarezza. Non c’è dubbio che se il Syndicat dei Crus Bourgeois ha fatto queste scelte avrà avuto le sue buone ragioni ma ciò non significa automaticamente che costituiscano un modello da imitare e importare in zone con storie e strutture ben diverse, come le doc/docg italiane.

In Italia, appunto, la zona che presenta una suddivisione – ma non una classificazione – alla borgognona è, come ormai dovremmo sapere un po’ tutti, l’area delle Langhe, dove i cru hanno assunto la definizione ufficiale di Menzione Geografica Aggiuntiva (MGA), ma la loro origine è comunque legata strettamente alla storia del territorio. In era “moderna” insomma non si è inventato niente che già non c’era.
In Toscana la viticoltura non ha mai avuto un rapporto con nessuna delle idee di cru sopra accennate, come, tanto per chiarire, non ha mai seguito pratiche da monovitigno; anche in questo caso le ragioni sono storiche e legate essenzialmente alla struttura mezzadrile che è stata definitivamente abbandonata poco più di mezzo secolo fa.
Oggi però un po’ tutti esprimono la voglia e l’esigenza di assegnare più valore e senso di identità al territorio in cui operano. Da parte dei Consorzi di Tutela sono già state approvate o comunque sono in fase di studio avanzato modifiche ai disciplinari con l’inserimento di “sottozone” di varia estensione fino a comprendere, nel caso di doc/docg particolarmente estese come il Chianti Classico, gli interi territori comunali. Da parte dei singoli produttori sta invece diffondendosi la tendenza a individuare e segnalare nuovi cru, il numero delle etichette si arricchisce di toponimi e nomi di fantasia, talvolta preceduti dal termine “vigna” o “vigneto”, un po’ come succedeva in passato con i supertuscan. Nella sostanza si tratta di mosse che hanno prevalentemente motivazioni di marketing. Non c’è niente di male, per carità, ognuno è libero di seguire la strada che preferisce per valorizzare al meglio la propria produzione, soprattutto se il beneficio – ovvero una qualità più alta – finisce con estendersi a tutta la gamma e magari a tutta la tipologia. Al contrario debbo rilevare che non è raro notare come il peso sempre più rilevante dei cru vada a impoverire il resto della produzione, vale a dire la base, allargando la forbice delle gerarchie delle varie etichette all’interno di ogni cantina. Ed è un cane che si morde la coda dato che prenderebbe una forma sempre più affilata la solita piramide, slanciando la sua punta verso l’alto mentre scava sempre più in basso le sue fondamenta.

Mi pare quindi evidente che non esistano modelli perfetti nel sistema di gestione delle denominazioni che dal semplice controllo delle regole è passato a funzioni essenzialmente promozionali.
La frammentazione in sottozone è però una scelta coraggiosa, da favorire in quanto ha la funzione concreta di indicare più da vicino la collocazione geografica dei vigneti; un aspetto caratterizzante che è utile ai consumatori e stimolante per i produttori.
È coraggiosa, ribadisco, perché per essere davvero efficace deve porsi con chiarezza, semplicità, onestà e rispetto per l’acquirente, senza fare troppi calcoli di convenienza spicciola.
Al contrario si rischia, per mediare tra le diverse posizioni, di infarcire di lacci, lacciuoli e distinguo vari i disciplinari di produzione, che già oggi appaiono sin troppo articolati rispetto alle reali esigenze sia del pubblico dei consumatori che dei produttori medesimi.

La sindrome di Borgogna

Il vino che sto bevendo è fatto solo con l’uva di quel vigneto lì!
È così affascinante pensare di bere un vino che proviene da un solo vitigno coltivato in un singolo vigneto, come succede con i vini di Borgogna. Anche non fosse vero, è l’idea che conta, il senso di autenticità e non contaminazione che trasmette e il forte potere di attrazione che suscita nell’appassionato. Non a caso anche in zone prive di una radicata tradizione sia del monovitigno che del singolo cru, come è la Toscana intera, più di un produttore propone oggi un catalogo ricco di etichette che riportano l’indicazione Vigna o Vigneto, seguito da un toponimo o da un nome di fantasia. Nei casi in cui è appurato che il vino che prende vita in quel determinato terreno possiede caratteristiche uniche e originali, ha sicuramente senso metterle in risalto, su questo non ci piove, ma pur avendo sempre sollecitato la valorizzazione dei singoli vigneti, sto dubitando se ciò sia veramente un segnale di crescita di consapevolezza o solo una forma evoluta di marketing dove il territorio è esibito con il nome di un luogo che stuzzica l’immaginazione dell’eventuale compratore e il parziale successo di mercato così ottenuto faccia perdere di vista l’obiettivo primario di un bravo produttore: ricavare il miglior vino possibile individuando le uve migliori dei propri vigneti.
È il valore della selezione, del blend se vogliamo, della capacità di scegliere e dosare, non è solo il territorio a vincere ma è il fattore umano ad essere decisivo. Meglio un solo, ottimo vino o quattro sbandierati cru di media tacca?
Non è neanche un confronto tra l’idea bordolese e quella borgognona, perché dove la filosofia del cru e del monovitigno è radicata storicamente, l’obiettivo principale di un produttore resta quello di realizzare il miglior vino possibile nel rispetto del proprio stile, ovunque e comunque. Pensiamo a un grande classico della nostra enologia: il Barolo di Teresa (Bartolo) Mascarello, che non rappresenta uno specifico cru ma è una selezione delle migliori uve della proprietà e sfoggia grande qualità, grande carattere, piena riconoscibilità della tipologia e dello stile aziendale. E lo fa in un territorio dove i cru esistono storicamente ma probabilmente, divisi tra loro, non gli darebbero un prodotto superiore.

Ma chi il vino lo compra, il consumatore, che ne pensa, da cosa si sente maggiormente tutelato? Dal nome di una vigna riportata su un’etichetta o dalla prova del bicchiere?

Aprile 2017 – Anteprima Barolo 2013, 11

 

DENOMINAZIONE NOME DEL VINO ANNATA AZIENDA GIUDIZIO VOTO
Barolo DOCG San Giovanni 2013 ALESSANDRIA GIANFRANCO impatto potente e deciso, progressivo nello sviluppo – base tannica robusta e finale in crescita 89
Barolo DOCG Altenasso 2013 CAVALIER BARTOLOMEO l’ingresso è ampio e convincente, ma successivament tende a stringere e a irrigidirsi, evidenziando tannini ancora un po’ crudi 85
Barolo DOCG Bricco Boschis 2013 CAVALLOTTO intenso, dotato di una trama ricca e sfaccettata, è caldo e alcolico al primo approccio, ancora tannico in chiusura ma ha dalla sua energia e naturalezza espressiva 91
Barolo DOCG Bricco Rocche 2013 CERETTO inizialmente impacciato e rigido, contratto da tannini e acidità, recupera tono e spinta nel promettente finale 87
Barolo DOCG Abbona Anna Maria 2013 ABBONA ANNA MARIA fresco e proporzionato, elegante nel tatto, ma meno coinvolgente nel finale – da seguire 89
Barolo DOCG Bric del Fiasc 2013 SCAVINO PAOLO saporito, fresco, dai tannini dolci e succosi, bilanciato, quasi docile nello sviluppo – non esprime ancora una complessità adeguata ma il potenziale è di rilievo 90
Barolo DOCG Parussi 2013 DELTETTO anche in questo vino colpisce più positivamente l’ingresso sul palato, nitido ed equilibrato, che non il finale, dai contorni decisamente più boisé – con la permanenza in bottiglia potrebbe migliorare 86
Barolo DOCG Pernanno 2013 CASCINA BONGIOVANNI poco attraente e poco originale sul piano stilistico, di tendenza “moderna”, è però apprezzabile per la pienezza della struttura e il buon equilibrio complessivo 87
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