La sindrome di Borgogna

Il vino che sto bevendo è fatto solo con l’uva di quel vigneto lì!
È così affascinante pensare di bere un vino che proviene da un solo vitigno coltivato in un singolo vigneto, come succede con i vini di Borgogna. Anche non fosse vero, è l’idea che conta, il senso di autenticità e non contaminazione che trasmette e il forte potere di attrazione che suscita nell’appassionato. Non a caso anche in zone prive di una radicata tradizione sia del monovitigno che del singolo cru, come è la Toscana intera, più di un produttore propone oggi un catalogo ricco di etichette che riportano l’indicazione Vigna o Vigneto, seguito da un toponimo o da un nome di fantasia. Nei casi in cui è appurato che il vino che prende vita in quel determinato terreno possiede caratteristiche uniche e originali, ha sicuramente senso metterle in risalto, su questo non ci piove, ma pur avendo sempre sollecitato la valorizzazione dei singoli vigneti, sto dubitando se ciò sia veramente un segnale di crescita di consapevolezza o solo una forma evoluta di marketing dove il territorio è esibito con il nome di un luogo che stuzzica l’immaginazione dell’eventuale compratore e il parziale successo di mercato così ottenuto faccia perdere di vista l’obiettivo primario di un bravo produttore: ricavare il miglior vino possibile individuando le uve migliori dei propri vigneti.
È il valore della selezione, del blend se vogliamo, della capacità di scegliere e dosare, non è solo il territorio a vincere ma è il fattore umano ad essere decisivo. Meglio un solo, ottimo vino o quattro sbandierati cru di media tacca?
Non è neanche un confronto tra l’idea bordolese e quella borgognona, perché dove la filosofia del cru e del monovitigno è radicata storicamente, l’obiettivo principale di un produttore resta quello di realizzare il miglior vino possibile nel rispetto del proprio stile, ovunque e comunque. Pensiamo a un grande classico della nostra enologia: il Barolo di Teresa (Bartolo) Mascarello, che non rappresenta uno specifico cru ma è una selezione delle migliori uve della proprietà e sfoggia grande qualità, grande carattere, piena riconoscibilità della tipologia e dello stile aziendale. E lo fa in un territorio dove i cru esistono storicamente ma probabilmente, divisi tra loro, non gli darebbero un prodotto superiore.

Ma chi il vino lo compra, il consumatore, che ne pensa, da cosa si sente maggiormente tutelato? Dal nome di una vigna riportata su un’etichetta o dalla prova del bicchiere?

Una risposta a “La sindrome di Borgogna”

  1. Buongiorno Ernesto stavo leggendo e prendendo spunto dalle tue recensioni (peraltro sempre molto centrate) ed ho visto che adesso vuoi fornire anche un ulteriore indicazione in base al prezzo.A mio modesto parere sembra molto intelligente,completa ed aiuta la scelta dell’etichetta
    Devo aggiungere però che “Sindrome da Stoccolma” mi è piaciuto veramente molto.Hai fatto un’analisi molto chiara della situazione,narrando si le grandissime qualità dei vari prodotti forniti da quel comprensorio, ma hai altresì’fatto intendere quanto sua alta anche l’astuzia e la preparazione commerciale di certi personaggi,che cavalcano e godono per le ottime strategie.Ottimo questo è giornalismo chiaro ed utile.
    Un caro saluto Alessandro

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