BORDEAUX PRIMEURS 2022: CHÂTEAU LAFLEUR
Non sto a ripetere ciò che ho già riferito dopo la visita a Lafleur dello scorso anno (potete leggerla qui) ma mi piace rimarcare alcuni aspetti che rendono davvero singolare, non solo a Pomerol e nell’intera regione bordolese, lo Château della famiglia Guinaudeau, a partire dalla scelta di privilegiare un’impostazione “borgognona” puntando alla diversità e alla caratterizzazione di crus specifici, contrapposta al pensiero dominante in area bordolese fondato sulla selezione delle migliori uve disponibili nella proprietà (anche se spesso corrispondenti a determinate parcelle) da destinare al Grand Vin. In questo senso è emblematica l’evoluzione che ha avuto “l’altro” vino di Lafleur che fino a non molti anni fa era il secondo vino: Les Pensées.
Les Pensées
Les Pensées de Lafleur nasce infatti come second vin nel 1987 per volontà di Jacques e Sylvie Guinaudeau con l’obiettivo di selezionare le uve migliori da destinare a Ch. Lafleur lasciando a Les Pensées le uve dei vigneti più giovani. Così è rimasto fino al secolo scorso ma, a partire dal 2000 ecco che prende forma e sostanza l’idea di non seguire un criterio selettivo su tutta l’estensione delle vigne (soltanto 4,5 ettari) ma di iniziare a delimitare gradualmente le parcelle di suolo dai caratteri omogenei che alla fine costituiranno il cru dei Pensées: una striscia, irregolare e profonda, di 0,7 ettari composta in prevalenza da argilla, sabbia e scarsa presenza di ghiaia (graves). Un suolo dalle caratteristiche tipiche del territorio di Pomerol al punto che Les Pensées, diventato ormai un cru autonomo, si avvicina allo stile attuale dei vini della denominazione ancor più di Lafleur, che costituisce un modello di vino unico e poco assimilabile ad altri.
Les Perrières
L’ennesima prova di grandezza di Ch. Lafleur, che nell’annata 2022 ha raggiunto vertici assoluti, non credo stupisca più nessuno. Le note di assaggio, consultabili in zona abbonati, sono più che esplicite al riguardo per cui non voglio insistere in toni elogiativi e preferisco parlare del cru Les Perrières, prodotto nella proprietà originaria della famiglia, lo Château Grand Village, situato nell’area di Fronsac.
È una vigna di 3 ettari e mezzo argillo-calcarei, poco profondi, nella zona di Meyney. Dopo una serie di annate sperimentali proposte con il nome di Acte (da 1 a 9), con il millesimo 2018 ha assunto il nome definitivo di Les Perrières (pietre o pietraie) che ricordiamo come toponimo frequente anche in alcuni crus di Borgogna (Mersault, Puligny-Montrachet..). L’intento è di riprodurre con lo stesso uvaggio (Cabernet Franc e Merlot in parti uguali), anzi con gli stessi cloni, un vino come Lafleur in un’area diversa ma non distante da Pomerol e dalla reputazione infinitamente meno prestigiosa visto che è imbottigliato semplicemente come Bordeaux Supérieur. Quando sottolineo gli stessi cloni mi riferisco in particolare al Bouchet che è il nome assunto dal Cabernet Franc in alcune aree della riva destra. Il Bouchet di Lafleur deriva da una selezione massale ottenuta nel 1930 dal vecchio proprietario, André Robin, e mantenuta in vita dalle figlie Thérèse e Marie dopo le gelate del 1956. Oggi il Cabernet Franc di Lafleur è in realtà quel Bouchet e lo stessa, identica varietà è stata piantata nei suoli di calcare a “astéries” (stelle marine) presenti a Les Perrières. Sembra che, oltre a Lafleur, il Bouchet sia presente soltanto in qualche vigneto di Ausone e di Cheval Blanc con marginali presenze a Vieux Château Certan e a Figeac. Si dice inoltre che, rispetto al Franc, sia meno fruttato ma più articolato sul piano aromatico, meno corposo ma anche meno duro nei tannini che sono più fini e setosi; solo apparentemente più delicato, in realtà è il Bouchet a dare l’ossatura e il nerbo intorno al quale si avvolge – come sempre da comprimario, anche se in questo caso di lusso – il Merlot.
Ho assaggiato per la prima volta Les Perrières 2021 lo scorso anno e la seconda quest’anno con il 2022 e debbo dire che è un vino con una personalità già così forte e netta da non potersi dimenticare facilmente. Uno dei pochi per i quali non è sprecato o fuori luogo l’utilizzo del termine “minerale”. Tensione, freschezza, verticalità, sapidità, finezza tannica, purezza espressiva, sono i termini che ricorrono sistematicamente tra le note di assaggio. Non sono in grado di poter fare confronti e affermare con certezza che queste caratteristiche dipendano dal calcare de Les Perrières o dal ruolo del Bouchet ma sono portato a pensare che la combinazione – gestita sapientemente – tra i due fattori sia la chiave vincente di un vino destinato a lasciare il segno a lungo.
D’altro canto, quando sei di fronte a una realtà dove la proprietà (rappresentata “fisicamente” dai figli Baptiste e Julie) è sempre presente e dove il capo enologo, Omri Ram, non ostenta il suo palato finissimo ma rivela un animo più da vigneron che da cantiniere, parlando con fervore dell’influenza dei terreni, dei cloni e, in genere, della vigna più che indugiare su barriques e tempi di macerazione, non dovresti più avere solidi motivi per provare meraviglia.
Ma davanti a certi vini non si può restare impassibili…
BORDEAUX PRIMEURS 2022. Degustazione UGCB: Pomerol e Saint-Emilion
Cambiano le zone, in questo caso cambia l’intero fronte visto che dalla riva sinistra ci spostiamo sulla destra, nell’area dove il vitigno principale non è più il Cabernet Sauvignon ma il Merlot, spesso accompagnato dal Cabernet Franc. I caratteri di calore e secchezza del millesimo dovrebbero, sul piano delle elucubrazioni puramente teoriche, aver prodotto disastri vista la tendenza del Merlot a maturare precocemente, ad accumulare zuccheri – quindi alcol – a calare in acidità, ad assorbire con facilità aromi surmaturi. Invece, al contrario, succede quel che non ti aspetti – la freschezza e l’equilibrio prevalgono – e pensi anche di aver elucubrato male, di essere arrivato a conclusioni frettolose, fantasiose e via dicendo. La 2022 sta solo a dimostrare che siamo troppo attenti a tenere di conto degli effetti superficiali e non di quelli meno apparenti, ci accorgiamo quindi di ciò che ci tocca anche personalmente e si controllano le temperature medie, i giorni senza pioggia e si perde di vista – ma è normale perché non lo vediamo – quel che succede all’interno dei terreni, alla composizioni di suolo e sottosuolo, alla loro profondità e alla loro reazione – drenante o meno – con l’acqua, all’età dei vigneti, all’azione dei portainnesti e via dicendo. Un’annata che, al di là di facili slogan, rivaluta il ruolo del territorio: il rapporto tra calore esterno e freschezza interna, in estrema sintesi, è la chiave di volta e rende comprensibile e giustificabile la risposta sorprendente ricevuta dai Merlot di questo millesimo negli assaggi effettuati all’Hangar 14. Alle visite specifiche, e debbo aggiungere anche entusiasmanti, effettuate, in precedenza, in altri Château del territorio (Angelus, Ausone, Figeac, Lafleur) dedicherò nei prossimi articoli adeguati approfondimenti.
Gli abbonati possono consultare qui le note di degustazione.
Château Lafleur, ovvero uno spicchio di Borgogna a Pomerol.
Il Merlot è il vitigno più banale che ci sia, con il Cabernet si fanno vini tutti uguali, i vini di Bordeaux sono solo un fenomeno commerciale, la produzione è da industriali del vino e non da vignaioli come in Borgogna. Posso andare avanti ancora un po’ con serie infinite di luoghi comuni ma probabilmente nessun vino e nessuna tenuta bordolese potrebbe avere un effetto così drastico e rivoluzionario su certi pregiudizi come l’incontro con Château Lafleur.
Vado per gradi, sinteticamente, segnalando che
1 – non è un’azienda dall’estensione infinita: gli ettari vitati sono soltanto quattro e mezzo.
2 – non fa parte delle proprietà di nessun gruppo internazionale, non ha una storia secolare da sbandierare, non è passata nelle mani di nobili, avventurieri, grandi mercanti o personaggi politici ma è un’azienda a conduzione familiare. “Contadina” amerebbe dire qualche mio collega.
3 – non si presenta come uno “Château” ovvero non è una villa con parco e laghetto di cigni né tantomeno un vero castello, ma una bella, semplice casa di campagna con annessa cantina e vigneto, l’ingresso sulla strada comunale, priva di insegne e indicazioni.
Procedendo più nel dettaglio diciamo che si inizia a parlare concretamente del vino di Lafleur e della sua eccellente qualità solo verso fine ottocento quando le sue quotazioni non erano già troppo distanti da quelle di Petrus; circa un secolo fa le proprietà di Lafleur e del confinante (e più esteso) Château Le Gay passarono nelle mani di André Robin, un negociant di Libourne che le diresse fino alla fine del secondo conflitto mondiale. Le due tenute passarono quindi alle due figlie, Therèse e Marie, che continuarono a seguirle all’antica: nessun uso di pesticidi e lavoro nei campi effettuato con i buoi (che già il cavallo costava troppo..).
Il primo trattore arriva a Lafleur e Le Gay solo negli anni ottanta e pochi anni dopo le tenute passarono in gestione con un particolare contratto di affitto/riscatto alla famiglia Guinaudeau che possedeva già qualche esperienza nel settore oltre ad avere un legame di parentela con le due sorelle Robin. I Guinadeau intervennero subito nel vigneto che, seppur incontaminato nei terreni, denunciava molte fallanze e andava riassestato; mantennero – con selezioni massali e una fittezza compresa tra le 6000 e le 7500 piante per ettaro – la stessa composizione di uve, un tempo assai più diffusa nell’intero territorio di Pomerol, oggi “super-merlottizzato”: metà cabernet franc e metà merlot. Questo è il primo aspetto che spiega la differenza tra Lafleur e altri vini della denominazione e per quale motivo non è soltanto un vino ricco e generoso ma anche fresco, teso, reattivo, elegante come nessun altro Pomerol. L’altro aspetto fondamentale è costituito, cerco di non dilungarmi, dalle diverse caratteristiche dei suoli (ghiaia, sabbia, argilla, ancora ghiaia..), dalla loro stratificazione verticale (determinante per l’equilibrio idrico), dalla lavorazione non invasiva dei terreni, lasciando inerbita solo quella striscia più bassa e umida dalla quale si ottiene Les Pensées de Lafleur (l’altra etichetta aziendale); insomma, la cura quasi maniacale, da veri vignerons, che i Guinadeau (divenuti all’inizio di questo secolo finalmente proprietari di Lafleur, cedendo però Le Gay) e in particolare Jacques, il capostipite, hanno avuto e continuano ad avere nella gestione del vigneto.
Un’attenzione ai dettagli che non a caso ha portato Lafleur a scalare le vette della denominazione e affermare un suo preciso carattere che in un’annata come la 2021, favorevole ai Cabernet e poco ai Merlot e conseguentemente penalizzante per i vini di Pomerol, ha avuto occasione di risaltare come non mai.
Le note di degustazione di Lafleur e degli altri Pomerol sono consultabili qui in zona abbonati.