Château Lafleur, ovvero uno spicchio di Borgogna a Pomerol.

Il Merlot è il vitigno più banale che ci sia, con il Cabernet si fanno vini tutti uguali, i vini di Bordeaux sono solo un fenomeno commerciale, la produzione è da industriali del vino e non da vignaioli come in Borgogna. Posso andare avanti ancora un po’ con serie infinite di luoghi comuni ma probabilmente nessun vino e nessuna tenuta bordolese potrebbe avere un effetto così drastico e rivoluzionario su certi pregiudizi come l’incontro con Château Lafleur.
Vado per gradi, sinteticamente, segnalando che

1 – non è un’azienda dall’estensione infinita: gli ettari vitati sono soltanto quattro e mezzo.
2 – non fa parte delle proprietà di nessun gruppo internazionale, non ha una storia secolare da sbandierare, non è passata nelle mani di nobili, avventurieri, grandi mercanti o personaggi politici ma è un’azienda a conduzione familiare. “Contadina” amerebbe dire qualche mio collega.
3 – non si presenta come uno “Château” ovvero non è una villa con parco e laghetto di cigni né tantomeno un vero castello, ma una bella, semplice casa di campagna con annessa cantina e vigneto, l’ingresso sulla strada comunale, priva di insegne e indicazioni.

Procedendo più nel dettaglio diciamo che si inizia a parlare concretamente del vino di Lafleur e della sua eccellente qualità solo verso fine ottocento quando le sue quotazioni non erano già troppo distanti da quelle di Petrus; circa un secolo fa le proprietà di Lafleur e del confinante (e più esteso) Château Le Gay passarono nelle mani di André Robin, un negociant di Libourne che le diresse fino alla fine del secondo conflitto mondiale. Le due tenute passarono quindi alle due figlie, Therèse e Marie, che continuarono a seguirle all’antica: nessun uso di pesticidi e lavoro nei campi effettuato con i buoi (che già il cavallo costava troppo..).

Il primo trattore arriva a Lafleur e Le Gay solo negli anni ottanta e pochi anni dopo le tenute passarono in gestione con un particolare contratto di affitto/riscatto alla famiglia Guinaudeau che possedeva già qualche esperienza nel settore oltre ad avere un legame di parentela con le due sorelle Robin. I Guinadeau intervennero subito nel vigneto che, seppur incontaminato nei terreni, denunciava molte fallanze e andava riassestato; mantennero – con selezioni massali e una fittezza compresa tra le 6000 e le 7500 piante per ettaro – la stessa composizione di uve, un tempo assai più diffusa nell’intero territorio di Pomerol, oggi “super-merlottizzato”: metà cabernet franc e metà merlot. Questo è il primo aspetto che spiega la differenza tra Lafleur e altri vini della denominazione e per quale motivo non è soltanto un vino ricco e generoso ma anche fresco, teso, reattivo, elegante come nessun altro Pomerol. L’altro aspetto fondamentale è costituito, cerco di non dilungarmi, dalle diverse caratteristiche dei suoli (ghiaia, sabbia, argilla, ancora ghiaia..), dalla loro stratificazione verticale (determinante per l’equilibrio idrico), dalla lavorazione non invasiva dei terreni, lasciando inerbita solo quella striscia più bassa e umida dalla quale si ottiene Les Pensées de Lafleur (l’altra etichetta aziendale); insomma, la cura quasi maniacale, da veri vignerons, che i Guinadeau (divenuti all’inizio di questo secolo finalmente proprietari di Lafleur, cedendo però Le Gay) e in particolare Jacques, il capostipite, hanno avuto e continuano ad avere nella gestione del vigneto.

Un’attenzione ai dettagli che non a caso ha portato Lafleur a scalare le vette della denominazione e affermare un suo preciso carattere che in un’annata come la 2021, favorevole ai Cabernet e poco ai Merlot e conseguentemente penalizzante per i vini di Pomerol, ha avuto occasione di risaltare come non mai.

Le note di degustazione di Lafleur e degli altri Pomerol sono consultabili qui in zona abbonati.

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