Senza questa serie di doverose premesse quello che vado ad affermare potrebbe essere equivocato, per cui:
comprendo e condivido che a lungo andare ci possa essere chi si è stufato di tutta una serie di vini troppo precisi, troppo prevedibili, troppo controllati, in una parola troppo conformisti . Vini che, intendiamoci, continuano ad avere notevole successo di pubblico, un pubblico, appunto, conformista che ha imparato il nome di quattro vini quattro e quelli chiede sistematicamente ogni volta che va in un ristorante.
Comprendo e condivido che si possa mettere in dubbio l’idea portata avanti dai “piccoli chimici”, alfieri dell’ortodossia – enologica e degustativa – per i quali i vini non sarebbero altro che un’arida somma di analisi di laboratorio, per cui accettano di buon grado vini imbottiti di legno, di chips, di aromi artificiali e di altre aggiunte estranee all’uva, ignorano la presenza di “anima” e personalità, ma fanno gli intransigenti se l’acidità volatile è uno 0,05 più alta del normale. Peggio per loro, aggiungerei, si sono così giocati malamente la possibilità di godere di tanti grandi vini (fatti da altri perché per loro sarà impossibile), visto che ad accompagnare spesso e volentieri tante etichette importanti e prestigiose è proprio la presenza più marcata di volatile, che dà semplicemente più enfasi ed espressività ai profumi senza causare nessun danno nel tempo.
Comprendo e condivido conseguentemente che seguire procedure dettate da protocolli rigidi e ripetitivi in qualsiasi ambiente, vitigno e territorio sia una pratica funesta da combattere duramente.
Comprendo e condivido che valori come personalità, originalità stilistica, distinzione abbiano assunto un peso sempre maggiore nel determinare il grado di attrattiva di un vino e, conseguentemente, il giudizio qualitativo d’insieme, anche a scapito di un po’ di correttezza formale.
Comprendo e condivido un atteggiamento privo di pregiudizi, anche nei confronti di quelli che sono considerati difetti del vino come (mi limito a citare i più comuni al giorno d’oggi) volatili, brettanomyces e ossidazioni assortite. Entro una certa soglia – è una questione di misura e non di principio – sono accettabili senza doversi scandalizzare.
Tuttavia non comprendo e non condivido per niente l’atteggiamento snob che oggi attraversa trasversalmente appassionati, operatori di mercato, giornalisti, critici vari nonché winemakers dell’ultim’ora che, spinti da motivazioni diverse (curiosità intellettuale, voglia di smarcarsi sempre e comunque, contagiati dalla sindrome di Cristoforo Colombo…), ritengono che decenni di studi e pratiche quotidiane (sistematicamente aggiornate) basate su test scientifici che hanno creato i fondamenti della moderna enologia è come non ci fossero mai state e, in ogni caso, considerate praticamente inutili, in quanto in loro prevale la convinzione che il vino si ottenga solo con processi naturali e la fisica, la chimica, la matematica e, men che meno, la microbiologia avrebbero poco a che farci. Per la frangia più estrema dei “naturisti” non importa se un vino è assai pungente e presenta odori animaleschi o se il finale è malamente asciugato o dolciastro come una mela cotta. Ciò che conta è che sia diverso dalla massa dei vini omologati.
Conseguentemente gli stessi suggeriscono ai produttori di liberarsi dai vincoli, di allentare i controlli, di lasciarsi un po’ andare, con l’obiettivo virtuoso di esaltare la diversità, l’imprevedibilità, la sorpresa. Obiettivi, che, se lasciamo davvero campo libero al “brett”, all’ossidazione e al festival di lieviti degenerati e batteri che ne conseguirà, verranno raggiunti con matematica certezza: non ci sarà una bottiglia uguale all’altra dello stesso vino e della stessa annata, un bel po’ della produzione sarà da buttare ma alla fine, a distanza di anni, resterà pure qualche esemplare unico e irripetibile che darà gioia e soddisfazione ai nostri amici snob.
Ma allora io, che ho sempre pensato che il carattere, la distinzione, la diversità dei vini fossero legati al territorio, al vitigno, alla cura dei dettagli, alla sensibilità umana (al terroir in una parola), sono evidentemente un ingenuo.
O no?