TENDENZE 3. Snobbiamo gli snob

Senza questa serie di doverose premesse quello che vado ad affermare potrebbe essere equivocato, per cui:

comprendo e condivido che a lungo andare ci possa essere chi si è stufato di tutta una serie di vini troppo precisi, troppo prevedibili, troppo controllati, in una parola troppo conformisti . Vini che, intendiamoci, continuano ad avere notevole successo di pubblico, un pubblico, appunto, conformista che ha imparato il nome di quattro vini quattro e quelli chiede sistematicamente ogni volta che va in un ristorante.

Comprendo e condivido che si possa mettere in dubbio l’idea portata avanti dai “piccoli chimici”, alfieri dell’ortodossia – enologica e degustativa – per i quali i vini non sarebbero altro che un’arida somma di analisi di laboratorio, per cui accettano di buon grado vini imbottiti di legno, di chips, di aromi artificiali e di altre aggiunte estranee all’uva, ignorano la presenza di “anima” e personalità, ma fanno gli intransigenti se l’acidità volatile è uno 0,05 più alta del normale. Peggio per loro, aggiungerei, si sono così giocati malamente la possibilità di godere di tanti grandi vini (fatti da altri perché per loro sarà impossibile), visto che ad accompagnare spesso e volentieri tante etichette importanti e prestigiose è proprio la presenza più marcata di volatile, che dà semplicemente più enfasi ed espressività ai profumi senza causare nessun danno nel tempo.

Comprendo e condivido conseguentemente che seguire procedure dettate da protocolli rigidi e ripetitivi in qualsiasi ambiente, vitigno e territorio sia una pratica funesta da combattere duramente.

Comprendo e condivido che valori come personalità, originalità stilistica, distinzione abbiano assunto un peso sempre maggiore nel determinare il grado di attrattiva di un vino e, conseguentemente, il giudizio qualitativo d’insieme, anche a scapito di un po’ di correttezza formale.

Comprendo e condivido un atteggiamento privo di pregiudizi, anche nei confronti di quelli che sono considerati difetti del vino come (mi limito a citare i più comuni al giorno d’oggi) volatili, brettanomyces e ossidazioni assortite. Entro una certa soglia – è una questione di misura e non di principio – sono accettabili senza doversi scandalizzare.

Tuttavia non comprendo e non condivido per niente l’atteggiamento snob che oggi attraversa trasversalmente appassionati, operatori di mercato, giornalisti, critici vari nonché winemakers dell’ultim’ora che, spinti da motivazioni diverse (curiosità intellettuale, voglia di smarcarsi sempre e comunque, contagiati dalla sindrome di Cristoforo Colombo…), ritengono che decenni di studi e pratiche quotidiane (sistematicamente aggiornate) basate su test scientifici che hanno creato i fondamenti della moderna enologia è come non ci fossero mai state e, in ogni caso, considerate praticamente inutili, in quanto in loro prevale la convinzione che il vino si ottenga solo con processi naturali e la fisica, la chimica, la matematica e, men che meno, la microbiologia avrebbero poco a che farci. Per la frangia più estrema dei “naturisti” non importa se un vino è assai pungente e presenta odori animaleschi o se il finale è malamente asciugato o dolciastro come una mela cotta. Ciò che conta è che sia diverso dalla massa dei vini omologati.

Conseguentemente gli stessi suggeriscono ai produttori di liberarsi dai vincoli, di allentare i controlli, di lasciarsi un po’ andare, con l’obiettivo virtuoso di esaltare la diversità, l’imprevedibilità, la sorpresa. Obiettivi, che, se lasciamo davvero campo libero al “brett”, all’ossidazione e al festival di lieviti degenerati e batteri che ne conseguirà, verranno raggiunti con matematica certezza: non ci sarà una bottiglia uguale all’altra dello stesso vino e della stessa annata, un bel po’ della produzione sarà da buttare ma alla fine, a distanza di anni, resterà pure qualche esemplare unico e irripetibile che darà gioia e soddisfazione ai nostri amici snob.

Ma allora io, che ho sempre pensato che il carattere, la distinzione, la diversità dei vini fossero legati al territorio, al vitigno, alla cura dei dettagli, alla sensibilità umana (al terroir in una parola), sono evidentemente un ingenuo.

O no?

LE TENDENZE 2. Affrancateci dal Cabernet Franc.

Negli anni novanta e a cavallo dei duemila, il Merlot ha conquistato sempre più spazio nei vigneti europei e anche del nuovo mondo. Dalle nostre parti, sulla spinta dei successi di mercato di alcune etichette, la tendenza a piantarlo, forse senza neanche verificare se davvero clima e terreni fossero proprio congeniali al vitigno bordolese, ha assunto ritmi frenetici. Le variazioni climatiche in atto in questo secolo hanno dato, in più di un caso, il colpo di grazia e attualmente non si può che constatare che una parte non irrilevante di quei vigneti abbia fatto una brutta fine, essendo stati estirpati o sovrainnestati con altre uve, dimostrando che a suo tempo la scelta era stata superficiale e frettolosa.

Ora, dato che piantare un vigneto e poi spiantarlo non è semplice come cambiare un maglione o un paio di scarpe della misura sbagliata, ogni anno prendo nota con una certa diffidenza dell’esordio dell’ennesima etichetta di Cabernet Franc, rigorosamente in purezza perché, come ho già avuto modo di segnalare, il monovitigno va “forte”. Solo a Bolgheri, ma la tendenza è generalizzata, se ne contano – tra doc e igt – più di una ventina.

Pur sperando che la lezione del Merlot sia servita e che tali scelte siano state dettate da attente valutazioni sulle caratteristiche di suoli, sottosuoli e microclimi, temo che anche in questo caso la molla dell’imitazione di qualche successo di mercato abbia creato un ulteriore fenomeno modaiolo. Certamente si dirà che il Cabernet Franc non è il Merlot, che è molto più adatto ai nostri climi e terreni, da noi matura bene, non è altrettanto precoce e via dicendo.
Tuttavia io continuo ad affidarmi ai responsi del “bicchiere” e i risultati che osservo non giustificano affatto tale proliferazione. Il che non significa che non ci siano C. F. buoni e anche ottimi. Ma sono una minoranza.

Allora, oltre alla prova del bicchiere, cerco di dare peso alle testimonianze “storiche” e a un briciolo di letteratura sull’argomento.
Le origini del Cabernet Franc si perdono nel tempo ma è opinione comune che il vitigno sia arrivato a Bordeaux e successivamente nella Loira dalla Spagna, anzi dai Paesi Baschi per essere precisi. Dall’incrocio del Franc con il Sauvignon Blanc sembra sia derivato il Cabernet Sauvignon, mentre dalla combinazione con la Magdeleine Noire des Charentes (vitigno scomparso o quasi) è nato il Merlot. Il Cabernet Franc è pertanto il progenitore dei principali vitigni bordolesi ma a Bordeaux – dove d’altro canto domina la cultura dell’assemblaggio – nessuno in concreto lo produce in purezza. Lo troviamo, ma in misura decisamente minoritaria, sulla riva sinistra, dove la prevalenza di ghiaia e sabbia è ben più congeniale al Cab. Sauvignon che predilige terreni caldi; ha un ruolo invece da protagonista sulla riva destra, soprattutto a Saint Emilion, grazie alla presenza di suoli calcarei (finezza e personalità) e anche argillosi (struttura e vigore) nei quali il Franc trova la freschezza ideale, come gli succede in quelle denominazioni della Loira (essenzialmente Saumur-Champigny e Chinon) che lo vedono protagonista assoluto e dove al calcare e all’argilla superficiale si aggiunge il tufo, che fa da spugna trattenendo le risorse idriche indispensabili per la corretta maturazione delle uve. In sintesi, visto che la stessa combinazione di terreni, magari scambiando il ruolo di argilla e calcare, è amata anche dai Merlot, si potrebbe forzare il concetto affermando che il Franc ha più aspetti in comune con il Merlot che con il Cabernet Sauvignon. E in effetti anche in tempo di vendemmia lo vediamo raccogliere poco dopo il Merlot ma sicuramente prima del Cab. Sauvignon. Non è proprio precoce ma neanche tardivo. Non teme quindi le stagioni calde (meglio se non torride) ma a patto che siano associate a terreni assolutamente freschi.
In conclusione, considerando che il clima della Loira, mitigato quanto si vuole dalla presenza del fiume (molto vicino ai vigneti peraltro), è un po’ diverso da Bolgheri e dalla Toscana in genere e che di tutto questo calcare poroso (a stella marina o astéries come dicono in Francia) in certe zone non ve ne è proprio traccia, sarei un po’ più cauto nel fare troppo affidamento sul Cabernet Franc. Soprattutto in purezza.
Ma moda e mercato sono una combinazione diabolica alla quale è evidentemente difficile resistere.

La riscoperta dei cru

Per lungo tempo abbiamo ammirato e invidiato le denominazioni (appellations) francesi ispirate storicamente – l’ordine di tempo è il secolo – a un sistema classificatorio (crus classés) che specifica – a torto o a ragione – chi siano i migliori (territori, produttori o cru a seconda delle varie tipologie) modellando la famosa piramide qualitativa che chiarisce al mercato, al pubblico, ai produttori medesimi quali sono le basi di partenza e dà il giusto peso a chi è posizionato in alto. In confronto le nostre doc/docg sono sempre apparse come una forma indefinita, segnate dall’incapacità di fare scelte decise; una posizione incerta pagata con la fuga dalle denominazioni di alcuni tra i vini più importanti prodotti nel nostro paese.
Alla resa dei conti però il criterio si è rivelato sempre più congeniale a chi stava in cima alla piramide ma non a chi stava alla base. Poteva funzionare quando sul mercato mondiale, in assenza di comunicazione, Bordeaux e la Borgogna facevano il bello e il cattivo tempo, ma in un contesto di competizione globale, con offerta di vino da ogni parte del mondo e consumi più che dimezzati nelle zone di produzione, la base, soprattutto in area bordolese, ha finito con lo scendere sotto il livello minimo e la piramide ha assunto una forma sempre più stretta e appuntita. Alla fine del secolo scorso un premier cru i Bordeaux poteva costare 50 volte di più di un semplice vino “regionale”; oggi il rapporto è diventato di 500 a 1. Non a caso sembra che ben 10000 ettari di vigna delle zone meno pregiate saranno spiantati perché non più remunerativi.

Tuttavia anche nell’attualità il contagio del principio della classificazione non sembra attenuarsi a Bordeaux e, sorvolando per semplificazione sulle continue polemiche innescate dalla suddivisione tra cru di serie A e serie B a Saint-Emilion, un esempio evidente è fornito dalla ripartizione operata nel 2020 dalla categoria dei Crus Bourgeois del Médoc – tipologia che dal punto di vista gerarchico e commerciale è su un piano più basso rispetto ai crus classés – che coprono quasi un terzo dell’intera produzione della regione e attualmente sono 249 (più o meno la metà delle aziende che ne fanno richiesta), dei quali soltanto 14 sono classificati – con cadenza quinquennale – come “Exceptionnels” e 56 come “Superieurs”, attraverso vari criteri tra i quali ha un peso rilevante il giudizio di una ristretta commissione d’assaggio. A chi può servire questo tipo di gerarchia? Alle aziende più quotate? Forse, ma già da tempo sono premiate dal mercato. A quelle alla base? È probabile, non certo da escludere, soprattutto nel caso temessero di essere scartate dalla selezione, ma si tratterebbe di una scelta puramente difensiva. Ai consumatori? Può darsi, però ricordiamoci che non si può pretendere che chi compra e beve vino, già bombardato da una comunicazione assillante e contraddittoria, debba superare un corposo esame di enografia memorizzando una miriade di dettagli quando servirebbero solo semplicità e chiarezza. Non c’è dubbio che se il Syndicat dei Crus Bourgeois ha fatto queste scelte avrà avuto le sue buone ragioni ma ciò non significa automaticamente che costituiscano un modello da imitare e importare in zone con storie e strutture ben diverse, come le doc/docg italiane.

In Italia, appunto, la zona che presenta una suddivisione – ma non una classificazione – alla borgognona è, come ormai dovremmo sapere un po’ tutti, l’area delle Langhe, dove i cru hanno assunto la definizione ufficiale di Menzione Geografica Aggiuntiva (MGA), ma la loro origine è comunque legata strettamente alla storia del territorio. In era “moderna” insomma non si è inventato niente che già non c’era.
In Toscana la viticoltura non ha mai avuto un rapporto con nessuna delle idee di cru sopra accennate, come, tanto per chiarire, non ha mai seguito pratiche da monovitigno; anche in questo caso le ragioni sono storiche e legate essenzialmente alla struttura mezzadrile che è stata definitivamente abbandonata poco più di mezzo secolo fa.
Oggi però un po’ tutti esprimono la voglia e l’esigenza di assegnare più valore e senso di identità al territorio in cui operano. Da parte dei Consorzi di Tutela sono già state approvate o comunque sono in fase di studio avanzato modifiche ai disciplinari con l’inserimento di “sottozone” di varia estensione fino a comprendere, nel caso di doc/docg particolarmente estese come il Chianti Classico, gli interi territori comunali. Da parte dei singoli produttori sta invece diffondendosi la tendenza a individuare e segnalare nuovi cru, il numero delle etichette si arricchisce di toponimi e nomi di fantasia, talvolta preceduti dal termine “vigna” o “vigneto”, un po’ come succedeva in passato con i supertuscan. Nella sostanza si tratta di mosse che hanno prevalentemente motivazioni di marketing. Non c’è niente di male, per carità, ognuno è libero di seguire la strada che preferisce per valorizzare al meglio la propria produzione, soprattutto se il beneficio – ovvero una qualità più alta – finisce con estendersi a tutta la gamma e magari a tutta la tipologia. Al contrario debbo rilevare che non è raro notare come il peso sempre più rilevante dei cru vada a impoverire il resto della produzione, vale a dire la base, allargando la forbice delle gerarchie delle varie etichette all’interno di ogni cantina. Ed è un cane che si morde la coda dato che prenderebbe una forma sempre più affilata la solita piramide, slanciando la sua punta verso l’alto mentre scava sempre più in basso le sue fondamenta.

Mi pare quindi evidente che non esistano modelli perfetti nel sistema di gestione delle denominazioni che dal semplice controllo delle regole è passato a funzioni essenzialmente promozionali.
La frammentazione in sottozone è però una scelta coraggiosa, da favorire in quanto ha la funzione concreta di indicare più da vicino la collocazione geografica dei vigneti; un aspetto caratterizzante che è utile ai consumatori e stimolante per i produttori.
È coraggiosa, ribadisco, perché per essere davvero efficace deve porsi con chiarezza, semplicità, onestà e rispetto per l’acquirente, senza fare troppi calcoli di convenienza spicciola.
Al contrario si rischia, per mediare tra le diverse posizioni, di infarcire di lacci, lacciuoli e distinguo vari i disciplinari di produzione, che già oggi appaiono sin troppo articolati rispetto alle reali esigenze sia del pubblico dei consumatori che dei produttori medesimi.

Considerazioni sparse dopo le anteprime toscane

Per motivi personali e con rammarico, ho dovuto saltare gli assaggi di Chianti, Morellino e della cosiddetta “Altra Toscana”, concentrati nelle giornate di domenica e venerdì, e ho quindi ripensato, al di là della qualità dei vini, agli aspetti che mi sono rimasti impressi nelle altre giornate dell’appuntamento enologico più importante della regione.
Cerco di procedere con ordine ma non garantisco la sintesi.

Partecipazione.
Le aziende del territorio sono state presenti in massa, con ben poche defezioni e, almeno numericamente, anche il fronte degli ospiti, intesi come stampa e buyer, ha riempito di volta in volta i locali messi a disposizione. Ho avuto la sensazione, solo la sensazione, non ho nessun dato a sostegno e potrei essermi sbagliato, di notare una presenza meno diffusa e incisiva di professionisti stranieri. Certo, la settimana non si conclude come in passato con i vini di Montalcino che costituivano un indubbio motivo di attrazione supplementare, ma almeno la concomitanza con Vinexpo a Parigi non si poteva evitare?

Le temperature di servizio.
Il periodo scelto per la manifestazione favorisce naturalmente le temperature di servizio dei vini rossi e infatti non sono mai emersi problemi da questo punto di vista; per quanto riguarda i bianchi – leggi San Gimignano – dopo due o tre secoli finalmente i vini non sono stati presentati a temperature glaciali e infatti erano più facilmente interpretabili. Questo è un punto di incomprensione storico con i sommelier, non solo di San Gimignano ma dell’intero emisfero boreale, e lo scandisco in sillabe perché non passi inosservato: non siamo a tavola, dove con le ostriche si beve un Muscadet (lasciamo stare lo Champagne) non fresco ma freddo, ma siamo in de-gu-sta-zio-ne (con vini giovanissimi che più sono freddi e più sono incomprensibili) dove sarebbe opportuno che le temperature fossero prossime a quelle di servizio dei rossi, ne consegue che vanno più che bene i bianchi a 14-15 gradi. Va da sé che se in futuro a San Gimignano, in luogo di tanti bicchieri e crackers, apparecchiassero una vassoiata di ostriche credo che la maggioranza degli assaggiatori, con il consueto spirito di sacrificio che la contraddistingue, si adeguerebbe a degustare anche le Ice-Vernaccia.

Tempi di servizio.
Gestione sicuramente più complessa dato che dipende a) dalla quantità di “clienti” da servire, b) dalla quantità di vini in lista, c) dalla quantità di sommelier disponibili, d) dalle caratteristiche e dimensioni dell’ambiente, tenendo conto che non si tratta di assaggiare più vini possibile ma di poterlo fare con il giusto ritmo, senza lunghe pause e improvvise accelerate. Intendiamoci: il servizio offerto è comunque preziosissimo, ciò non toglie che si potrebbe fare di meglio.
Venendo al punto a) teoricamente il numero di giornalisti e media che assaggiano non dovrebbe variare più di tanto da luogo a luogo ma in realtà, anche per comodità di locazione, sono le grandi sale della Leopolda a ospitarne il numero largamente più elevato; inoltre, a prescindere dal punto a), conta il rapporto tra vini da servire e persone incaricate del servizio. A tal proposito, punto b), sciorino alcune cifre ricavate dai vari cataloghi: a Firenze (Leopolda) con il Chianti Classico erano presenti (su due giorni) 511 vini, a San Gimignano 95, a Montepulciano 63. Sul punto c) non ho dati per esprimermi ma “a occhio” il rapporto tra vini e sommelier permetteva un servizio efficiente e puntuale a Montepulciano, un po’ meno a San Gimignano e ancora meno a Firenze. Stop.

Non solo assaggi in anteprima.
Erano previste, in ogni luogo sopra citato, comunicazioni, piccoli eventi o degustazioni di corredo alle anteprime. Tutto bene debbo dire, le idee prendono corpo e offrono un’immagine dinamica del territorio nel suo complesso. Mettendomi nei panni di un collega di un altro paese che torna dopo un anno e verifica che, almeno nella forma e nelle proposte, il progetto UGA del Chianti Classico non è rimasto per aria ma continua a fare passi in avanti: il prezioso corredo dell’estratto di carte dei territori preparate da Alessandro Masnaghetti, fornito a ogni partecipante ne è una tangibile e apprezzata dimostrazione. In pari misura procede a Montepulciano il progetto Pievi e continuano a San Gimignano le presentazioni, mai ripetitive, di vecchie annate di Vernaccia nella scenografica Sala Dante.

Accoglienza.
Ho francamente poco da dire su questo piano, visto che ho alloggiato solo una notte a Chianciano Terme e che dal 1700 evito, quando possibile, di partecipare a cene di gala o di benvenuto. Certamente non nascondo che di Chianciano ricordavo in passato pernottamenti in Hotel stile “Shining”, comprendenti il timore di veder apparire improvvisamente bambini che pedalano nei corridoi; fortunatamente quest’anno la cornice era assai più confortevole e rilassante. Delle cene di benvenuto ho già accennato della mia scarsa attitudine alla frequentazione anche nella considerazione che l’elevato numero di commensali mal si concilia con l’alta qualità della cucina, però debbo dire che quest’anno a Montepulciano è stata una di quelle occasioni in cui pensi che è valsa la pena esserci. Un menu centratissimo, ben coordinato con i vini, con piatti gustosi, ricchi di personalità eppure discreti e misurati. Debbo fare quindi un plauso sincero allo chef Emiliano Lombardelli del ristorante Dama Dama di Porto Ercole e alla scelta effettuata dal Consorzio del Nobile. Bravi.

Dulcis in fundo.
Infine chiudo con un vino, bevuto alla fine della cena suddetta. Un Vin Santo di Montepulciano. Classico colore ambrato, profumi che svariano da tutte le gamme di frutta secca alla liquirizia, ai marron glacèes, al miele di castagno, alle spezie orientali, agli agrumi confit, all’essenze di rose e ancora, insomma profumatissimo e ovviamente dolce e ovviamente denso ma non quella dolcezza stucchevole dove lo zucchero si affianca all’alcol, poi alla glicerina, poi di nuovo lo zucchero con lo zucchero e resti senza saliva, senza fiato, senza denti, senza voglia di riprovare a berlo. In questo caso al contrario la dolcezza va a braccetto con un’acidità dritta e continua che non ti abbandona mai, ti rinfresca e ripulisce la bocca e ti invita a berlo di nuovo. Lunghissimo, coinvolgente, irresistibile. Non dimenticate, come stavo per fare io, il nome del produttore: Villa S. Anna, annata 2012. Il migliore.

© 2016 ErGentili - build proudly by Stuwebmakers and Wordpress
contact: info@ernestogentili.
Privacy Policy