Il Brunello e il complesso della complessità

Nel Brunello di Montalcino 2016 di Col d’Orcia si colgono aspetti apprezzabili come la piacevolezza immediata, la freschezza, l’integrità del frutto, ovvero un insieme di caratteri dei quali è generalmente carente l’intera tipologia. D’altro canto c’è chi sostiene che è la complessità a fare la differenza tra un Brunello e un Rosso di Montalcino o altri vini a base di sangiovese.

Ma cosa significa realmente il termine complessità? Non ha presupposti analitici (come l’alcol, l’acidità o i polifenoli) e quindi non è misurabile ma collegabile alla ricchezza e, soprattutto, alla qualità della materia prima e alla sua evoluzione nel tempo che porta gradualmente a modificare la struttura e sovrapporre caratteri terziari a quelli primari. È sostanzialmente un concetto intuitivo che un assaggiatore affina con l’esperienza e può coglierne i segnali anche in un vino giovane, ma probabilmente si spiega meglio pensando all’esatto contrario del termine semplicità.

Il Brunello 2016 di Col d’Orcia sembra apparentemente più semplice che complesso.
Ed è questo il punto. Continua a resistere una diffusa abitudine ad accettare che il Brunello di Montalcino, ma non ne sono esenti Barolo e Barbaresco, sin dagli inizi sia un vino più evoluto che fragrante, con profumi più terziari che primari (vedi perdita di frutto) e, nei casi meno riusciti, con tannini precocemente tendenti alla secchezza. Un vino in fase calante, stanco, nato vecchio.
Ma non complesso.
Se è questa la complessità che si chiede a un Brunello, allora viva la presunta semplicità di Col d’Orcia, il suo carattere ancora fruttato, il suo ammirevole equilibrio che lo rende già pronto e godibile, come del resto dovrebbe essere un vino dopo cinque lunghi anni di affinamento.

Ma non è che un vino del genere possa essere meno longevo? Può darsi, magari per limiti di qualità tannica e strutturale ma non certamente perché è tuttora fruttato.
Anche sulla longevità di un vino permangono purtroppo credenze e luoghi comuni difficili da sfatare, come gli eccessi di acidità o di tannini interpretati come presupposti fondamentali per la tenuta nel tempo. Favole.
La netta maggioranza dei vini – di ogni luogo – che ho assaggiato, anzi bevuto e (ri)bevuto a distanza di venti o addirittura trent’anni dalla loro vendemmia, erano perfettamente equilibrati e pronti sin dai loro primi anni di vita. Dopo tanto tempo non avevano ancora perso il loro frutto originario ma si erano arricchiti di altre sensazioni, diventando, appunto, sempre più complessi.

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