Confesso di non avere mai avuto una grande considerazione dell’Ansonica, vitigno diffuso anche nella Toscana costiera e insulare ma certamente più conosciuto e apprezzato in Sicilia con il nome di Inzolia. In terra sicula, tuttavia, abbiamo assistito nel corso degli anni alla rinascita del Grillo, alla valorizzazione del Carricante e, conseguentemente, dei bianchi etnei, alla rivalutazione del carattere singolare del Catarratto, ma l’Inzolia, al di là di qualche interpretazione più azzeccata, si è limitata a mantenere un profilo corretto e dignitoso restando un po’ ai margini del processo di crescita delle altre uve bianche autoctone siciliane.
Per quanto riguarda invece l’Ansonica toscana i miei ricordi sono soltanto decisamente negativi: ossidazioni precocissime e aggressive, con profumi neutri – quando non ancora ossidati – e sapore piatto, molle e finale pure tannico: un pianto assoluto. Soprattutto nelle incaute versioni “continentali” ovvero della costa maremmana, mentre meno disastrose ma assolutamente insignificanti e innocue quelle prodotte nell’isola d’Elba. A onor del vero qualche tentativo apprezzabile, soprattutto per l’impegno, è affiorato negli anni più recenti, puntando, attraverso tecniche macerative, sugli aspetti più caratteriali ma anche più rustici del vitigno, con riscontri qualitativi in ogni caso altalenanti. Alla resa dei conti la prima Ansonica degna di sicura attenzione ma dallo stile un po’ “boisé, sciardonné e fransé” l’ha proposta Bibi Graetz – quello di Testamatta – con il Bugia: uve acquistate al Giglio, vinificate con una certa maestria per realizzare un vino così buono e diverso dalle Ansonica assaggiate fino a quel momento da farti pensare se il merito era da assegnare al vitigno, al Giglio o semplicemente – e probabilmente – a Bibi Graetz. Punto e (quasi) a capo. Sottolineo il “quasi” perché da quel momento qualcosa si è mosso e l’isola del Giglio è salita gradualmente al centro del mirino. Sono uscite nuove etichette di Ansonica (ovviamente tutta, forse anche troppa, del Giglio) corrispondenti a vini ancora un po’ rustici ma anche saporiti e non banali che hanno creato un giustificato ritorno di interesse sulla tipologia. Interesse puntualmente e gradualmente disatteso.
Questo era il mio personalissimo rapporto con l’Ansonica prima di conoscere Fontuccia. L’incontro, debbo ammetterlo, è stato folgorante e favorito dalla regia di Franco Pallini, collega e soprattutto amico (gli amici sono quelli che ti fanno conoscere i vini buoni), che mi ha portato praticamente sotto casa (vedi Scoglietto di Claudio Corrieri), l’intero staff e le ultime bottiglie prodotte di Fontuccia.
Dovrei scrivere altre diciotto pagine per raccontare in modo accettabile – e chissà, forse lo farò – l’insieme di informazioni e di emozioni suscitate dall’incontro ma sono passati già sei mesi e debbo in qualche modo tagliare corto altrimenti rischio di continuare a rimandare. Non ho stilato note di degustazione, né tantomeno assegnato punteggi – che, inutile dirlo, sarebbero stati alti -, mi limiterò ad accennare quasi telegraficamente agli aspetti più significativi. Le etichette prodotte sono sei (non poche, certo), ma al di là di alcune versioni (come il Cocciuto) nate dalla voglia di sperimentare e verificare i confini percorribili e al gustosissimo passito Nantropò, l’ossatura concreta è composta dai tre vini della linea Senti Oh!, vale a dire, appunto, il Senti Oh!, un’Ansonica ricavata dal blend dei vari vigneti distribuiti in aree diverse dell’isola che esprime efficacemente il carattere del territorio senza tuttavia anteporlo all’equilibrio, il Fontuccia dal profilo floreale, così sorprendentemente fresco e reattivo da suggerirmi incredibilmente (visti i miei precedenti con questa uva) di definirlo addirittura elegante, e infine il Caperrosso, dal vigneto quasi omonimo (Capel Rosso) disposto proprio fronte mare sulla punta meridionale del Giglio, distinto da un approccio impulsivo, potente eppure equilibrato e profondo oltre che dotato di una bevibilità del tutto inattesa: senza mezze misure è Ansonica nel carattere e gigliese nell’anima. Nel complesso si tratta di vini dal sapore intenso, dal frutto succoso contrastato dalla sapidità iodata, vini di sole e di mare, ricchi ma non pesanti, golosi e “orgogliosi”.
Nell’assaggiarli sono combattuto tra il piacere e lo stupore. C’è magìa e un piacevole mistero nei vini di Fontuccia, un unicum irrealizzabile senza la fusione tra vitigno e luogo. Trovare la freschezza in un’Ansonica sembrava già difficile, trovarla in un vigneto esposto a sud a due passi dal mare ha dell’inspiegabile ma forse non la soluzione ma una prima risposta all’enigma sta proprio qui. L’Ansonica chiede il mare in faccia, magari a est o a sud quando le nebbie mattutine filtrano e attenuano i raggi solari e il dorso delle colline la protegge dal calore dei lunghi tramonti isolani. Il resto va forse cercato nella polvere di granito presente nel terreno ma, soprattutto, nella passione dei titolari – Giovanni e Simone Rossi, gigliesi doc – con il supporto non formale ma altrettanto appassionato del loro enologo Valentino Ciarla, ormai coinvolto senza via d’uscita in una missione che spinge al massimo i limiti della sensibilità.
Certamente se vogliamo è un po‘ la solita storia – vitigno, territorio e persone – ma meritava di essere, pur stringatamente, raccontata.