La Tenuta di Ghizzano e il suo limite nord; appunti e riflessioni

La recente visita alla Tenuta di Ghizzano mi ha fornito buoni motivi per chiarire alcuni aspetti trattati nell’ultimo articolo pubblicato qui. Mi si dirà che cosa può avere a che fare un’azienda situata all’interno delle colline pisane con il “limite nord”, ma è proprio questa l’occasione giusta per parlarne in quanto il collegamento che tento di proporre non ha apparenti raccordi di collocazione geografica. Sul piano della filosofia produttiva ne ha invece, e in abbondanza.
La Tenuta di Ghizzano è stata probabilmente la prima cantina della zona a intraprendere con decisione il percorso dei rossi ambiziosi e longevi, da lungo “invecchiamento” si usava dire una volta. È passata attraverso una serie di tracciati, seguiti da buona parte delle aziende nostrane, che spingevano verso concentrazioni sempre più accentuate e un uso aggressivo dei legni di affinamento, opponendo a queste tendenze un pizzico di orgoglio istintivo per non farsi trascinare in una spirale del tutto omologante.
Una forma di “resistenza” non così diffusa dato che è sorprendentemente alto il conto di quanti, produttori e tecnici, hanno pensato in passato di svoltare con un semplice “copiaeincolla” delle pratiche enologiche e agronomiche bordolesi e borgognone. A distanza di un paio di decenni certi vigneti sono stati del tutto spiantati  o hanno visto dimezzare la loro densità originale, perché quelle pratiche erano giuste se applicate alle vigne al “limite nord”, non a qualche centinaio di chilometri a sud; tuttavia di quelle esperienze è rimasta l’eredità di un modello di vino spinto al massimo, palestrato o sovrastrutturato che dir si voglia, che ha messo le radici e si è diffuso su scala planetaria. Si potrebbe dire che molti hanno dato per buona e definitiva l’equazione: più bassa è la resa e più piccole sono le botti, più alta è la qualità. In fondo la Francia docet, ma siamo in Italia e il nebbiolo o il sangiovese sono uve ben diverse dal cabernet o dal merlot, come diverso è il clima.
Con gli anni credo che – e parlo a nome di molti produttori, non solo di chi (Ginevra Venerosi Pesciolini) ha diretto l’azienda di famiglia in questi anni – a Ghizzano come altrove sia sorta spontanea la domanda: qual’è oggi l’identità dei miei vini? Rappresentano veramente ciò che mi piace e il carattere del mio territorio? Ecco allora che, oltre alla scelta “biodinamica”, si ripensa al ciclo produttivo mettendo in discussione un pilastro intoccabile della qualità a tutti i costi: la resa produttiva. In apparenza  solo qualche aggiustamento ma in realtà una piccola rivoluzione. L’obiettivo non è più di concepire il vino più ricco possibile ma il più equilibrato e, magari, riconoscibile: la produzione resta comunque bassa, ma un paio di grappoli in più per pianta in fondo allungano i tempi di maturazione, gli zuccheri si accumulano più lentamente, le acidità tengono, i profumi si saldano maggiormente e, a seconda dell’andamento stagionale, non è poi così disdicevole anticipare di una settimana la raccolta. Ma allora, la famosa maturità fenolica – il mito degli anni 2000 – va a farsi benedire? Può darsi, d’altra parte quando capitano annate del genere a qualcosa si deve pur rinunciare e bisogna scegliere se fare un vino meno strutturato e complesso o una marmellata di uva, ovvero se è meglio berselo (con piacere) per qualche anno in meno – ma non è detto – o non berselo mai. E il riferimento all’assaggio del 2017 del Veneroso, del Nambrot e del nuovo alfiere aziendale, il Mimesi – sangiovese in purezza – non è per niente casuale, visto che in tutti i vini sono emersi caratteri (equilibrio e piacevolezza di beva) insoliti per l’annata, con il frutto in sorprendente rilievo rispetto ai tannini. Caratteri replicati, con l’aggiunta di un corroborante supplemento di freschezza, con l’annata 2018, mentre la 2019, più completa e complessa, chiede solo di essere attesa.

Misurarsi con la realizzazione di un vino da monovitigno costituisce sempre una sfida tanto appassionante quanto difficile e lo è ancora di più se l’uva è sangiovese che non ha più il cabernet, il merlot o il syrah pronti a coprirgli le magagne e mascherargli gli eventuali difetti. Deve cavarsela da solo ed ecco che è quasi inevitabile accorgersi che la barrique sia un luogo troppo caldo e ossidativo dove farlo maturare. Il tannino e le sostanze aromatiche che l’alcol estrae dal legno lo confondono, lo disorientano, non è più riconoscibile e smarrisce il suo già precario equilibrio. E che senso ha fare vini privi di armonia e senza carattere? Ecco allora che si decide di abbandonare la barrique, si provano botti più capienti, sperimentando anche gli orci di cocciopesto che permettono un’evoluzione graduale conservando l’integrità del frutto ed esaltando così il senso di identità del sangiovese.
Il tempo darà i suoi verdetti ma le scelte che ho citato vanno tutte in direzione del fantomatico Limite e tentano di bilanciare il calore con la freschezza per valorizzare un territorio che può competere con i migliori in eleganza ma non in potenza e profondità.
Il messaggio non si presta a equivoci: puntare dritti a coniugare l’equilibrio con la personalità, proponendo vini che si bevono e si distinguono.
Riuscire ad essere sé stessi è già un primo, grande obiettivo raggiunto.

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